Il settore dei servizi salverà i giovani dalla disoccupazione?

Lorenza Margherita

Lorenza Margherita

Scritto il 25 Ott 2012 in Approfondimenti

Secondo i dati pubblicati dall’Eurostat all’inizio di ottobre, nel 2011 quasi il 70% dei cittadini europei era impiegato nel terziario.
Nella forbice tra Romania - 43% - e Lussemburgo - 85% - l’Italia si attesta dunque nella media con il 67,9% dei lavoratori attivi in questo settore. Come spiega Emilio Reyneri, docente di Sociologia del lavoro all’università Bicocca di Milano, nei servizi la produttività del lavoro è stabile o cresce molto poco (al contrario di agricoltura e industria dove la produzione può aumentare anche se non aumentano i lavoratori). Quindi se cresce la produzione deve crescere anche il numero dei lavoratori. Un’equazione semplice che innesca secondo le stime di Maurizio Ferrera, ordinario di Teoria e politica  dello stato sociale alla facoltà di Scienze politiche della Statale di Milano, un aumento dei tassi di occupazione giovanile. Nei paesi dove i servizi alle imprese, alle famiglie e ai consumatori creano più posti di lavoro, i giovani ne beneficiano no
n solo per le posizioni meno qualificate e meno retribuite, ma anche per incarichi ad alto contenuto di conoscenze.
Ma come creare più servizi? Sicuramente una maggiore liberalizzazione dei settori a forte domanda di lavoro e scarsa offerta di candidature costituisce un incentivo non solo alla diminuzione dei prezzi ma anche alla creazione di nuovi posti.  Nonostante l’apertura dei mercati sia indicata da studiosi e politici come una strada da percorrere, non esistono soluzioni prêt-à-porter, a maggior ragione in un grave momento di recessione come quello attuale. Infatti strategie che mirino esclusivamente all'aumento di privatizzazione nella fornitura di servizi, non sembrano essere misure sufficienti per contrastare  il calo dei consumi e l'aumento del tasso di disoccupazione. Che sia il caso di associare a strategie di liberalizzazione nuove formule di organizzazione del lavoro? In Italia, ma anche all'estero, si va affermando l'idea di una flessibilità da intendersi in senso più ampio.
Come intervenire quindi per garantire la crescita del settore dei servizi? Per limitare i danni da perdita del lavoro generata dal circolo vizioso tra il calo dei consumi e della produzione, è necessario affidarsi non solo alle facilitazioni in entrata e di uscita dal mercato del lavoro, ma anche alla rimodulazione dell’organizzazione e dei tempi in cui la prestazione è richiesta. Tito Boeri, docente di economia del lavoro all’università Bocconi e Herbert Bruecker collega di Boeri presso la Otto-Friedrich Universitaet di Bamberg, hanno provato a studiare ed immaginare delle “alternative”: secondo un recente studio, la riduzione degli orari di lavoro rende ottimi risultati in termini di salvaguardia dei posti – è il vecchio adagio “lavorare meno, lavorare tutti” – se applicata a periodi brevi. Eppure in Europa si continua a lavorare molto, ma a guadagnare meno e i tassi di disoccupazione si mantengono a livelli preoccupanti. Sempre secondo i dati fotografati dall’Eurostat per il 2011 [vedi tabella], la media delle ore lavorate nei ventisette paesi si attesta intorno alle quaranta settimanali. Le recenti dichiarazioni del presidente di Confindustria Giorgio Squinzi aprono ad una scelta diversa: per ottenere un aumento della produttività e ridurre la pressione fiscale di almeno il 10%, rispetto al gap che il nostro paese ha con la Germania, sarebbe necessario lavorare di più.
Ma allora quale strada seguire per uscire dalla crisi se liberalizzazione e maggiore flessibilità del mercato del lavoro sembrano essere poco efficaci?
Anche in questo caso non è semplice dare risposte. In Italia, start-up di successo – e in particolare aziende legate al mondo di internet - sembrano dimostrare che la necessità sia quella di sperimentare nuove forme di impresa attraverso investimenti lungimiranti. D'altra parte se si chiede flessibilità ai lavoratori, la si deve anche saper ricevere ed il settore dei servizi ben si presta a tutte le sperimentazioni in termini di flessibilità, correndo tuttavia rischi ben noti. Un buon mix di sperimentazione, giovani meno choosy [letteralmente: «esigenti, pignoli, incontentabili» – non necessariamente «schizzinosi»] e flexicurity possono rappresentare la direzione verso cui guardare.

Lorenza Margherita

Per saperne di più su questo argomento, leggi anche:

- I giovani sono i più colpiti dalla crisi, il Cnel: «Sempre più difficile trovare il lavoro per cui si è studiato»
- Arriva DeRev, una start-up da guinness dei primati
- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa

 

Community