Viviamo in un paese “gerontocratico”? Diciamo che ci sono buoni motivi per ritenerlo. Quantomeno possiamo affermare che tra i paesi più sviluppati il nostro è quello che si avvicina di più ad un sistema politico nel quale le posizioni di prestigio e potere sono saldamente nelle mani delle generazioni più anziane.
L’età media dell’intera classe dirigente italiana è ben rappresentata da quella dei componenti dell’attuale governo, pari a 64 anni. L’età matura degli attuali ministri non è quindi un’anomalia all’interno del nostro stivale, lo è solo se la si confronta con la situazione delle altre economie avanzate. La sovrarappresentazione italica nelle posizioni più preminenti della generazione degli over 60 risulta, ad esempio, evidente non solo nella politica ma anche ai vertici del mondo delle professioni e dell’università (i docenti sopra tale età sono più del doppio da noi rispetto a Francia, Spagna, Regno Unito, ecc.).
Perché ci troviamo in questa situazione? Avanziamo due contrapposte interpretazioni.
Un possibile motivo è che i sessantenni e settantenni siano più bravi. Avendo quindi maggiori capacità e competenze è giusto che siano loro a guidare e a decidere. Questo significa che rispetto agli altri paesi i nostri anziani al potere sono migliori e/o i nostri giovani-adulti esclusi sono meno capaci. Chi si sentisse di appoggiare questa ipotesi deve però spiegare perché l’Italia capitanata da una classe dirigente vecchia (supposta meritevole) abbia raggiunto risultati di crescita e di credibilità internazionale così bassi. E anche spiegare perché quando i giovani (che noi lasciamo da parte) se ne vanno all’estero trovano ampia valorizzazione e più veloci opportunità di emergere e far carriera.
Il secondo motivo imputa la nostra gerontocrazia “de facto” alla scarsa disponibilità di chi è al potere di rimettersi in discussione, indipendentemente dai risultati ottenuti. Ma esiste forse anche un meccanismo meno esplicito e consapevole di freno al ricambio generazionale. Se da lungo tempo è al potere sostanzialmente una stessa generazione è più facile che diventi autoreferenziale, che interpreti la realtà con i propri schemi e punti di riferimento. Quando quindi c’è da scegliere per cooptazione un ministro, un dirigente, il membro di un CdA, è più facile che i nomi da cui ci si trovi a pescare (competenti o meno) appartengano a persone anagraficamente, e spesso socialmente, simili. Insomma funziona la logica dell’appartenenza, anche nella buona fede. Ogni tanto ci scappa qualche giovane bravo, ma spesso è figlio di qualcuno noto e ben inserito.
Qualche tempo fa in una tavola rotonda ho avuto una discussione accesa con un senatore della Lega che si diceva contrario a togliere il vincolo dei 40 anni per entrare al Senato. Un limite anagrafico tra i più severi nelle grandi democrazie occidentali, soprattutto se si considera che in Italia vige il sistema bicamerale perfetto che prevede che tutte le leggi debbano essere approvate comunque anche in Senato. L’argomento del senatore leghista era che fare entrare i giovani troppo presto in politica dandogli troppe responsabilità li si rovina, gli si fa credere che la politica sia una professione. Qualche mese dopo il figlio di Bossi veniva eletto nel consiglio regionale della Lombardia con stipendio analogo a quello di un parlamentare. Così funzionano le cose in questo paese sempre più arrogantemente gerontocratico e pieno di strade spianate solo per i “figli di”.
E’ allora davvero un peccato che il (sicuramente valido) governo Monti non sia stato l’occasione per segnare una discontinuità anche su questa anomalia italiana (si vedano in particolare i dati pubblicati sul sito Ingenere).
La gerontocrazia italiana non ha futuro. Se i migliori sono i più anziani, la gara è già persa in partenza. Più vecchi di così…
Alessandro Rosina
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