Quando si parla di stage spesso si fa l'errore di considerarne l'aspetto numerico come una caratteristica di per sé positiva. Si dice «abbiamo fatto / ospitato / promosso / incentivato tanti stage» con orgoglio e quasi con vanto, come se fosse di per sé una nota di merito. In questo errore cadono anche molto spesso i politici e gli amministratori locali, quando per sottolineare il proprio impegno sul fronte dell'occupazione giovanile rimarcano il numero degli stage attivati dalle strutture da loro amministrate, magari attraverso programmi o fondi specifici. Il messaggio che si vuol far passare è che tanti stage siano immediatamente uguali a tante opportunità, e che le opportunità siano sempre una buona cosa. Il fatto che il numero degli stage attivati aumenti in un dato territorio o settore produttivo è dunque visto, nella maggior parte dei casi, come un dato "oggettivamente" positivo, da sbandierare come se fosse di per sé una prova di una buona amministrazione e gestione della sempre più problematica fase di ingresso dei giovani nel mercato del lavoro.
Invece, purtroppo, il numero degli stage da solo non vale nulla. Non prova il fatto di avere messo in atto buone politiche, non prova il fatto di aver aperto ai giovani buone opportunità. Anzi.
Gli stage non vanno giudicati in base al numero, bensì alla qualità. Con la Repubblica degli Stagisti da molti anni sosteniamo che senza un'attenzione forte verso la qualità, gli stage cresceranno (o, in tempo di crisi, non diminuiranno) di numero solo perché convenienti per le aziende, molto più vantaggiosi a livello economico e giuslavoristico rispetto ai contratti di lavoro. Ma continueranno a nascondere in molti casi sfruttamento, lavoro mascherato da stage, scarsa formazione. Continueranno ad essere per i giovani un "passaggio obbligato" spesso compiuto dovendo accettare condizioni-capestro e quasi sempre senza la minima prospettiva di arricchimento formativo e inserimento lavorativo.
I fattori fondamentali per giudicare la qualità di uno stage, non solo secondo la Repubblica degli Stagisti ma anche secondo autorevoli addetti ai lavori, sono tre. Il primo è una buona qualità del percorso formativo, che sia prima di tutto attinente con il percorso di istruzione pregresso del tirocinante e calibrato - per durata e per mansioni - al ruolo professionale che egli va ad apprendere attraverso il tirocinio. A questa qualità sono legate indissolubilmente la presenza e competenza del tutor del soggetto ospitante, e su questa qualità deve vegliare il tutor del soggetto promotore. Senza formazione lo stage è vuoto, una scatola dai colori sgargianti che nasconde una trappola.
Il secondo fattore importante è il compenso. Riconoscere attraverso una indennità il valore del tempo e dell'impegno dello stagista è il minimo per costruire un rapporto basato sul rispetto. Negare l'apporto anche economico che lo stagista, pur in formazione, porta all'ufficio pubblico o all'azienda privata che lo ospita è meschino: ed è giusto che questo apporto vada quantificato in termini economici. Su questo aspetto sono stati fatti notevoli passi avanti negli ultimi mesi: grazie al recepimento da parte delle Regioni delle linee guida concordate proprio un anno fa in sede di Conferenza Stato-Regioni, ora tutti coloro che fanno uno stage di tipologia extracurriculare (cioè al di fuori di un percorso di studi) hanno diritto a ricevere una indennità mensile, che ciascuna Regione ha fissato con proprio provvedimento, e che oscillano tra i 300 e i 600 euro minimi mensili. Restano però fuori da questa garanzia tutti gli studenti che svolgono stage curriculari: per questo la Repubblica degli Stagisti chiede da mesi che il ministero dell'Istruzione si muova per colmare la vacatio legis e per emettere un decreto che regolamenti i tirocini curriculari, prevedendo anche per questi un rimborso spese minimo. Altrimenti il rischio è che tutti i soggetti ospitanti che vogliono fare i furbi e continuare ad avere stagisti senza pagarli un euro "migrino" verso quelli curriculari, più vantaggiosi perché privi di una regolamentazione tutelante e di un obbligo di rimborso.
Terzo fattore di qualità, l'effettiva e concreta prospettiva di inserimento lavorativo. Vile e ipocrita è chi dice che lo stage non ha una finalità di ingresso nel mondo del lavoro. Ce l'ha eccome; specialmente in questo disgraziato momento storico, in cui in Italia (e in tutta Europa) i giovani cercano spasmodicamente di rompere il muro di gomma della disoccupazione e riuscire a trovare un posto e uno stipendio. Spesso accettando di "cominciare" attraverso uno stage. Concreta prospettiva di inserimento ovviamente non vuol dire dare "garanzia" allo stagista che verrà assunto al termine dell'esperienza formativa. Vi sono mille fattori ignoti, al momento dell'attivazione dello stage, che impediscono che questa promessa possa essere formulata: anzi, i giovani devono sempre guardarsi bene dai millantatori, da chi promette troppo, perché solitamente sono proprio quelli che non mantengono, e che usano la carota sventolata davanti al naso per attirare i creduloni, farli sgobbare in stage per sei mesi o magari addirittura di più, e poi mandarli via e sostituirli con un nuovo stagista.
Dunque, premesso che non fare promesse di assunzione è un atteggiamento che denota serietà, bisogna però dire altrettanto chiaramente che mantenere opaca la reale prospettiva occupazionale di uno stage è altrettanto scorretto. I dati raccolti a livello nazionale da Unioncamere, attraverso la sezione dell'indagine annuale Excelsior dedicata ai tirocini formativi, dimostrano che purtroppo la percentuale di assunzione media dopo lo stage in Italia è sotto al 10%. Un altro dato emerso dal rapporto McKinsey "Education to Employment" 2013, chiarisce che da noi chi fa uno stage ha solamente il 6% di probabilità in più di trovare lavoro rispetto a chi non lo fa. Il tirocinio dunque, per come è concepito e utilizzato oggi in Italia, è fortemente deficitario rispetto a questo terzo fattore, che invece è percepito come importantissimo dai giovani italiani.
A questo punto è facile capire perché l'aspetto numerico degli stage, in questo quadro, sia irrilevante. Avere tanti stage, un numero in continuo aumento (come è accaduto negli anni tra il 2006 e il 2009) oppure in equilibrio (negli ultimi anni infatti il numero complessivo paradossalmente si è mantenuto stabile, a fronte del crollo del numero di contratti di lavoro), non vuol dire certamente dare tante opportunità ai giovani.
Se questi tanti stage, infatti, non rispettano i tre fattori qualitativi - se sono cioè privi di contenuto formativo, o privi di una dignitosa indennità economica, o privi di potenziale sbocco lavorativo, o addirittura tutte queste cose insieme - si capisce bene che aumentarne il numero non favorisce i giovani, anzi, li danneggia. Vengono loro offerti cioè tanti stage, ma di qualità scarsa o pessima.
La scelta deve essere invece improntata alla qualità, e su questo dovrebbero lavorare i politici e gli amministratori che davvero vogliono imprimere un giusto indirizzo alla loro azione sul tema dell'occupazione giovanile. Vantarsi che nella propria Regione siano stati attivati tanti stage è, in una parola, stupido. Perché se in quei tanti stage poi si annidano, come è successo e succede e come la Repubblica degli Stagisti periodicamente denuncia, tirocini come benzinai, braccianti agricoli, lavapiatti, commessi, «pulitori» cioè domestici, e se attraverso l'attivazione di questi stage fittizi si diminuiscono invece i posti di lavoro offerti sul mercato con regolari contratti, allora ci troviamo di fronte a un vero e proprio boomerang.
Invece di vantarsi del numero di stage attivati, politici e amministratori dovrebbero sforzarsi di lavorare sulla qualità di questi stage e sopratutto sugli sbocchi lavorativi che essi sono e saranno in grado di assicurare. Meglio insomma meno stage, ma di migliore qualità e uno sbocco lavorativo più alto. Non è una politica facile da portare avanti, ma è l'unica seria nell'interesse dei giovani.
Eleonora Voltolina
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