Dopo il Nord America e l’Asia, per la terza puntata dedicata alle università estere le distanze si accorciano: destinazione Nord Europa. Per esempio l’Inghilterra, che da tempo è meta nota di numerosi studenti italiani, specialmente nei centri accademici più prestigiosi come la London school of economics and political science, leader mondiale nell’ambito degli studi sociali e internazionali, seconda solo ad Harvard in questo campo stando al Qs Ranking 2013, dove figura al 68simo posto.
I dati ufficiali relativi all’anno accademico 2012-2013 confermano questa tendenza: su un totale di 7.301 overseas students, gli studenti stranieri, quelli provenienti dall’Italia erano 253, di cui 15 undergraduate e 238 graduate, in lento ma costante aumento: nel 2010-2011 erano per esempio 226. Un numero discreto, superato in Europa solo dalla Francia e dalla Germania. A detenere il record è la Cina, a quota mille overseas, seguita dagli Stati Uniti con 899 studenti.
Qual è la ragione di questo successo internazionale? Per dare una risposta si può partire dal motto dell’università stessa: rerum cognoscere causas, conoscere le cause delle cose.
E la prima causa, apparentemente banale, consiste nella chiarezza del sito. Alla voce “study” è possibile passare in rassegna i programmi disponibili per ogni corso di laurea, principalmente per le due categorie ormai conosciute ai lettori della Repubblica degli Stagisti, quelle di undergraduate e graduate students.
La presentazione del piano formativo, dei servizi connessi e dei metodi di insegnamento, ad entrambi i livelli, è riassunta e commentata dettagliatamente all’interno delle presentazioni (prospectus), che possono essere ordinate nella versione cartacea oppure visibili online in formato pdf. Inoltre agli studenti internazionali è dedicata una pagina apposita, in cui sono fornite tutte le informazioni indispensabili ai fini dell’ammissione, suddivise per singola nazione.
Per quanto riguarda l’Italia, se per i cosiddetti taught master's programmes il requisito fondamentale è il possesso di una laurea conseguita con un punteggio minimo di 106/110, per i laureati italiani intenzionati ad iscriversi ad uno dei programmi di ricerca - research programmes - rivolti appunto alla ricerca scientifica e compresi tra i tre e i sei anni (Master of research, Master of philosophy e PhD), la griglia si estende notevolmente. Infatti oltre al voto di laurea si richiede, tra le altre cose, la qualifica nell’ambito dell'International baccalaureate. E poi almeno un anno di studio in un’altra istituzione accademica e un certificato di lingua inglese, il cui punteggio minimo complessivo è 7 per Ielts e 107 per il Toefl.
Se quello stesso studente italiano volesse saperne di più circa le tasse da pagare è tutto scritto in un pratico menu a tendina: nel 2014/2015 i neoammessi inglesi ed europei pagheranno 9mila sterline, circa 10mila euro, se si iscrivono ad un undergraduate full-time programme mentre le tasse dei programmi taught full time programmes sono più elevate, da un minimo di 9.180 ad un massimo di 20.656 sterline (tra 11mila e 25mila euro).
Tra le risorse finanziarie segnalate, vi sono la borsa di studio Lse bursary per i primi, con un valore annuale che va da 750 a 4mila sterline (tra 900 e 4820 euro), e per i secondi il sostegno Graduate support scheme, vincolato alle condizioni economiche, che ha un valore medio di 6mila sterline (circa 7.230 euro).
Completamente gratuita è invece l’istruzione universitaria in Danimarca, per chi proviene dall’Europa e dai paesi membri dello Spazio economico europeo, per gli studenti che partecipano a scambi internazionali e per gli iscritti svizzeri. Per tutti gli altri le tasse oscillano tra le 55mila e le 111mila corone danesi, cioè tra i 7mila e i 15mila euro, in base alla cittadinanza e al corso di laurea frequentato.
Agli studenti danesi, nessuno escluso, viene garantito dallo Stato anche una sorta di “stipendio” mensile (chiamato SU), del valore di 2.903 corone (circa 390 euro) se vivono ancora con i genitori e di 5.839 corone (un po' più di 780 euro) se vivono da soli, specifica alla Repubblica degli Stagisti Carl Hagman, responsabile della comunicazione dell’università di Copenaghen, 45sima nella classifica Qs Ranking.
Di questo aiuto economico possono usufruire anche altri beneficiari, rispettando le condizioni della legge danese ed europea: ad esempio quella per cui l’aspirante candidato alla Su deve lavorare o aver lavorato in Danimarca, come si legge sul sito "Study in Denmark" del Ministero della scienza, tecnologia e innovazione.
Ora, se le tasse non gravano sul bilancio complessivo, bisogna comunque sostenere il costo della vita. Per capire quanto si spende valga il conteggio indicativo proposto da Hagman: considerando che una corona danese corrisponde a 0,134 euro, ogni mese vanno via in media tra le 2.600 e le 4.800 corone solo per l’alloggio (pari a una media tra 340 e 640 euro), tra le 1.500 e le 2.500 per il vitto (tra 200 e 330 euro), e tra 1.500 e 2mila euro a semestre per libri e materiale di studio (tra 200 e più di 260 euro). Infine nel budget bisogna includere tra le 600 e le mille corone necessarie per i mezzi di trasporto (80-130 euro) e infine un pacchetto mensile tra i 100 e i 250 euro, da destinare a spese aggiuntive.
Può capitare allora di dover cercare un lavoretto extra ma l’impatto con la sezione online dell’università della capitale, creata per l’argomento, è tutt’altro che incoraggiante: vi si trova scritto testualmente che «è abbastanza difficile per gli studenti internazionali trovare un lavoro in Danimarca, cosicché nel programmare il soggiorno a Copenaghen, non dovreste basare le vostre finanze sulla possibilità di ottenere un impiego retribuito». Subito dopo per fortuna viene proposta qualche soluzione utile, tramite il collegamento ad un’altra pagina chiamata “Ku Jobbank” e al sito “Work in Denmark” - entrambi vetrine di annunci di lavoro - e agli uffici dell’ateneo competenti per il rilascio del permesso di lavoro, chiamato work permit.
La cosa potrebbe interessare qualche membro della consistente popolazione italiana presente nell’università: lo scorso anno quest'ultima contava 47 dottorandi italiani, oltre 29 studenti post-doc, 34 professori e un centinaio di studenti iscritti ad un master a tempo pieno, con le facoltà umanistiche in testa. Di certo il sistema è molto diverso da quello italiano, a partire proprio dalla gestione degli studi: «La famiglia passa in secondo piano, non ti dà più soldi, i figli sono indipendenti».
Lo racconta alla Repubblica degli Stagisti Antonio Tredanari, pugliese d’origine, danese d'adozione. Nell’agosto 2009 lascia Parma, dopo la triennale in Scienze e tecnologie ambientali e l'iscrizione alla specialistica. Un Erasmus di sei mesi in Svezia è per lui la spinta a prendere una decisione coraggiosa: fa la “rinuncia agli studi” in Italia e decide di partecipare al progetto EnvEuro, all'epoca alla terza edizione, grazie al quale svolge la specialistica (master) all’estero, trascorrendo il primo anno a Copenaghen e il secondo in Svezia dove scrive la tesi che discute nel 2011, per poi stabilirsi nuovamente in Danimarca.
L’università di Copenaghen propone una vasta offerta di master’s programmes, riportati dalla a alla zeta sul sito: appurato che senza laurea triennale (bachelor’s degree) l’ammissione è fuori discussione, bisogna leggere attentamente lo schema di ciascun corso perché i requisiti, il processo di candidatura e i termini utili sono diversi l’uno dall’altro. Nel sito viene descritta in linea generale anche l’organizzazione dello studio, che secondo l’esperienza di Antonio è articolato in modo più pratico e specializzato rispetto all’Italia, essendo i 120 crediti annuali spalmati non tanto su libri quanto su presentazioni, lavori di gruppo, valutazioni costanti, casi da studiare.
«Un aspetto positivo è che mi sono relazionato con sistemi formativi differenti riuscendo in qualche modo a prenderne il meglio» spiega facendo un bilancio di quel biennio: «Ma il master non mi ha facilitato nell’ingresso nel mondo del lavoro. I contatti con l’esterno erano abbastanza limitati. Ora magari le cose sono cambiate, hanno imparato dai nostri feedback». In definitiva «la situazione non è stata rosa e fiori neppure in Danimarca, tuttavia qui il sistema è diverso perché ci si prende molta più cura dei disoccupati. Non ti senti abbandonato».
In che modo? «Bisogna iscriversi ad un’associazione, paghi una membership e loro ti danno per due anni un sussidio per aiutarti a trovare un altro lavoro. Questo vale per i quarantenni come per i neolaureati che hanno studiato in Danimarca». Il sussidio ammonta a circa 1.200 euro al mese, una cifra non altissima se paragonata al costo della vita, ma accompagnata dall’offerta di corsi per giocarsi altre carte: Antonio ne ha seguito uno di lingua danese che gli ha permesso di lavorare, dopo più di un anno di inattività, al Ministero dell’alimentazione, dell’agricoltura e della pesca, svolgendo un «vikariat, che sta per posizione temporanea», con una retribuzione di circa 1500 euro netti. Ma non passa neanche un mese che il ragazzo riceve una nuova proposta di lavoro nella sua compagnia attuale, in cui si occupa di monitoraggio ambientale guadagnando, con un contratto da ingegnere alla prima esperienza, tra i 2.200 e i 2.500 euro netti al mese.
Antonio Tredanari non vuole andarsene. La Danimarca gli piace perché non è una società competitiva e ognuno lavora per dare il suo contributo. Per spiegare in che modo, lui dice così: «Il sistema qui tende ad appiattire e a rendere tutti più o meno uguali, non accetta molto le disuguaglianze, ma non si tratta di omologazione. Non noti molto le differenze tra il capo e il sottoposto a livello di relazioni. E anche le variazioni di reddito non sono poi così esagerate».
Marta Latini
- La foto della Lse è di Jim Larrison - licenza creative commons
- La foto della biblioteca della Lse è di SomeDriftwood - licenza creative commons
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