I tirocini al ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo non sono tirocini. O almeno questo vorrebbero sostenere dal suddetto ministero. Il "caso" è quello dei 500 tirocini messi a bando due anni fa, i "500 giovani per la cultura" passati dalle mani del ministro Bray a quelle del ministro Franceschini.
Quei 500 tirocini, banditi tra le polemiche, attivati tra mille ritardi e attualmente in corso, secondo il direttore generale Caterina Bon Valsassina non sarebbero (più) tirocini: «il programma "500 giovani per la cultura" non rientra nelle casistiche indicate […] in quanto non si tratta di forma di lavoro né di tirocinio di formazione e orientamento» si legge infatti nero su bianco in una circolare emessa pochi giorni fa, il 15 ottobre, dalla Direzione generale Educazione e ricerca del Mibact.
E allora come dovrebbero essere chiamati questi 500 "giovani" (tra molte virgolette, dato che alcuni hanno superato i trent'anni)? Se non sono lavoratori e non sono stagisti, cosa diavolo sono? Il ministero non lo specifica, limitandosi ad affermare nella circolare 62/2015 che si tratterebbe invece «di un programma formativo straordinario che non è equiparabile ad alcuna forma di lavoro dipendente e per il quale non è previsto un contratto bensì la sottoscrizione di un progetto».
Il Mibact non dovrebbe ignorare il fatto che i tirocini rispondono proprio a questa descrizione: non sono lavoro dipendente, non vengono attivati tramite contratto, bensì attraverso la sottoscrizione di un progetto formativo (e una convezione).
In effetti, come noi sulla Repubblica degli Stagisti avevamo notato immediatamente, riferendosi ai "500 giovani per la cultura" il Mibact aveva fatto ben attenzione a usare sempre la perifrasi «percorsi formativi»: in tutto il bando, pubblicato a dicembre 2013, non si trovava infatti mai scritta la parola stage, o tirocinio, e noi avevamo infatti rilevato che era come se come se si volesse accuratamente evitare di chiamare le cose con il loro nome.
Ma nel nostro ordinamento non ci si può inventare di sana pianta «un programma formativo straordinario» pretendendo che non sia «equiparabile ad alcuna forma di lavoro» e collocandolo in un limbo privo di nome e di quadro normativo: perché questo vorrebbe dire collocarlo al di fuori del perimetro del diritto del lavoro, cosa ovviamente impossibile. E infatti anche il ministero dei Beni culturali, pur non nominando mai la parola «stage» o «tirocinio», alla fine del bando (datato dicembre 2013), facendo il dovuto «rinvio alla normativa vigente», aveva dovuto ammettere come tutto il programma formativo spiegato fino a quel punto si appoggiasse sulla «normativa vigente in materia di tirocinio formativo e di orientamento».
Lo stesso ministro dell'epoca - Massimo Bray - aveva parlato apertamente di tirocini sul suo sito web in un post intitolato proprio Perché 500 giovani per la cultura. «Abbiamo la possibilità di impegnare 2,5 milioni di euro in formazione» spiegava Bray, dopo aver messo in chiaro l'impossibilità di procedere con assunzioni malgrado la carenza di personale: «Con il decreto “Valore Cultura” abbiamo pensato di dedicarli a 500 giovani, per offrire a neolaureati l’opportunità di una specializzazione che li portasse dentro il patrimonio culturale». E rispondendo alle critiche rispetto all'esiguità della indennità, specificava come essa fosse «quella prevista per i tirocini» e che dunque non ci fosse «nessuna volontà di sfruttare il lavoro dei giovani laureati bensì di offrire loro un’opportunità unica di formazione», aggiungendo anche che «i posti di tirocinio» non sarebbero stati a Roma bensì «distribuiti su tutto il territorio italiano, in modo da non obbligare nessuno che non possa permetterselo ad andare fuori sede».
Dunque che senso ha emettere, a due anni di distanza, una circolare in cui il Mibact - smentendo sé stesso - sostiene che «non si tratta di forma di lavoro né di tirocinio di formazione e orientamento»? Il tema è rilevante; basti pensare che all'interno delle Linee guida sui tirocini extracurriculari concordate in sede di Conferenza Stato-Regioni all'inizio del 2013 è chiaramente specificato che esse «rappresentano standard minimi di riferimento anche per quanto riguarda gli interventi e le misure aventi medesimi obiettivi e struttura dei tirocini, anche se diversamente denominate». Messaggio molto chiaro: evitate di fare i furbi, cambiando semplicemente nome agli stage nel tentativo di sfuggire alle prescrizioni. La Repubblica degli Stagisti da sempre ritiene, coerentemente con questo punto, che si debba in ogni contesto fugare ogni dubbio sulla impossibilità di inventare nuovi nomi per attività simili ai tirocini.
Non esistono, quando si parla di formazione e lavoro, «programmi formativi straordinari» o altre diciture che permettano di esulare dalla normativa vigente. Se una persona entra in un ufficio, tutte le mattine, svolgendo delle mansioni, deve essere inquadrata con precisione. Può essere un lavoratore: un dipendente subordinato oppure un collaboratore autonomo (un cococo, un cocopro, un consulente a partita Iva...). Oppure può essere uno stagista, cioè una persona che svolge un periodo di "training on the job", e allora si fa riferimento alla normativa sui tirocini (a proposito, ministero dell'Istruzione, a quando l'emanazione di una nuova legge su quelli curriculari? Siamo in vacatio legis da ormai tre anni!).
Tertium non datur, con buona pace del ministero dei Beni Culturali. Anche perché, quale potrebbe essere il motivo per non qualificare correttamente uno stage? Per non uniformarsi ai dettami della normativa? Per erogare un rimborso spese inferiore ai minimi obbligatori? Per far durare i percorsi formativi più a lungo del consentito? Perché?
La Repubblica degli Stagisti spera vivamente che corra ai ripari, annullando quella circolare e sostituendola con una più conforme non solo al bando cui fa riferimento, ma anche e sopratutto al diritto del lavoro italiano.
Eleonora Voltolina
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