Da poche righe buttate giù su un blog a un libro. «Se Steve Jobs fosse nato a Napoli» (pubblicato poche settimane fa da Sperling & Kupfer) è la storia amara di due giovani napoletani e della loro voglia di affermarsi, frustrata da un contesto ostile, che non dà spazio a chi è «affamato e folle», ma non ha le condizioni materiali «giuste». La Repubblica degli Stagisti ne ha parlato con l’autore, Antonio Menna, 44 anni, giornalista e collaboratore di quotidiani come Il Mattino e Liberazione, lucano di nascita ma napoletano d'adozione. Menna aveva già scritto due romanzi: nel 2007 «Cocaina e cioccolato» e nel 2009 «Baciami molto».
Tutto è partito con un post, pochi giorni dopo la morte di Steve Jobs. Da qui il successo sul web e poi il libro. Com’è nata quest’idea?
Quando Steve Jobs è morto la Rete è stata travolta dall'emozione e sono stati rilanciati molti dei suoi interventi. Uno di questi era il famoso «siate affamati, siate folli», pronunciato agli studenti di Stanford. Questa espressione mi ha un po' irritato. E, per reazione, mi sono chiesto se sia davvero così. Davvero bastano carattere e tenacia per farcela? Davvero le condizioni esterne non contano nulla? Ho provato a collocare Jobs in un altro posto e in un'altra epoca. Avere vent'anni a Napoli nel 2011. Che cos'avrebbe fatto? Ne è nato un racconto di due paginette che ho pubblicato sul mio blog. Pensavo lo leggessero i soliti cento frequentatori. Invece quel post è esploso: il contatore delle visite dopo appena due ore era già impazzito. È stato un contagio velocissimo. Ho condiviso il post sulla mia rete social e dopo un po' mi sono accorto che veniva condiviso a sua volta dai miei amici e dagli amici degli amici. Una moltiplicazione pazzesca che ha portato in 24 ore il blog ad avere 200mila lettori. Nel giro di una settimana, siamo arrivati a più di mille commenti e 10mila condivisioni su Facebook e Twitter. Il mio blog, in quei tre giorni, è stato il più visitato al mondo sulla piattaforma di Wordpress: ne hanno parlato tv e giornali nazionali e stranieri. In quei giorni mi è venuto in mente che quel post poteva essere la traccia su cui scrivere un romanzo. Le avventure di questi due ragazzi di vent'anni, dei Quartieri Spagnoli di Napoli, che hanno un’idea straordinaria e provano a realizzarla, inciampando in mille ostacoli.
I protagonisti del libro sono giovani, provengono da famiglie modeste e sono dei Quartieri Spagnoli. La scelta non è casuale. In un contesto economicamente più «solido» e in un’altra zona di Napoli, l’esito della storia sarebbe stato diverso?
Io penso di sì. In Italia se nasci «male» sei condannato. Nascere male significa non avere reti di protezione. Da noi contano le famiglie, i circoletti, le cricche. Se sei un talento libero, fuori da circuiti amicali e familiari sei spacciato. In questo senso, la famiglia dove nasci, il luogo dove cresci, i circuiti sociali dove ti inserisci sono, purtroppo, determinanti. I gruppi dirigenti, ogni tanto, su base familiare o di appartenenza, prelevano un giovane e lo ammettono al tavolo. Nella scelta però preservano loro stessi, quindi selezionano quello più ubbidiente, possibilmente quello che non può minacciare la loro leadership. Al talento libero, autonomo, brillante, non resta che cercare da una parte di apparire meno di quello che è, e dall'altra di trovarsi una protezione. I protagonisti del mio libro sono di famiglie semplici. I Quartieri Spagnoli provano a tenere i ragazzi sotto scacco. Ma i due sono tutt'altro che scugnizzi, furbi e bulli, come si potrebbe immaginare, o come un certo colore su Napoli ci ha sempre restituito. Sono ingenui, creativi, attraversati perfino da un sentimento di giustizia. Uno non penserebbe mai di trovarli lì, ai Quartieri Spagnoli. Eppure ci sono. Come ce ne sono tanti nella realtà. Il contesto però non li aiuta. Anzi, per un tragico paradosso, sembra allearsi coi peggiori, e quasi divertirsi a ostacolarli.
I due si scontrano con lo scetticismo, la difficoltà a ottenere finanziamenti dalle banche, i tempi burocratici e, non ultimo, la camorra. C’è qualcosa che influisce più di tutto?
I ragazzi attraversano una «via crucis». Nella vita reale magari te ne può capitare una oppure due. Nel libro invece le racconto tutte: mi interessava fare una sorta di viaggio nei problemi, nei punti di blocco del nostro sistema. Dal credito, che nessuno fa a chi non ha garanzia, alla burocrazia, che è stracolma di norme confuse, alla corruzione, soprattutto quella minima dei cinquanta euro da parte dei pubblici uffici, che logora il sistema economico. Fino alla camorra, tratto che caratterizza tipicamente l'ambientazione napoletana. Sono tappe di un calvario che un giovane senza protezioni attraversa di sicuro in un Paese come il nostro, in particolare in una realtà come meridionale. E ciascuna di queste tappe rappresenta un problema da risolvere, se vogliamo far decollare il nostro Paese.
Verso la fine del libro scrive: «Puoi essere affamato e folle quanto vuoi, ma se nasci nel posto sbagliato, ti rimangono la fame e la follia, e niente più». Ma si intuisce che i due amici non perdono la speranza. È possibile trovare una strada diversa?
Io ho scritto un libro problematico sull'Italia e su Napoli. Ma non voglio che il messaggio sia distruttivo e disperato. C'è chi ce la fa anche in Italia, e anche a Napoli. Il fatto è che si pagano costi altissimi, e che tutte queste difficoltà disperdono risorse, energie, talenti, e allontanano investimenti. Il problema quindi è quello che si muove intorno. Le opportunità a Napoli, ma per certi versi in tutto il Paese, sono poche e questo condiziona molto - soprattutto tra i venti e i trent'anni, quando ti affacci sul mercato del lavoro. Se non si affrontano questi nodi è inutile parlare di speranza. Ai ragazzi che mi chiedono un consiglio io dico che chi ha la possibilità fa bene ad andare via. Le condizioni per realizzare se stessi fuori dai soliti circuiti familistici e amicali, in Italia e al Sud, non ci sono.
In questo periodo si sono moltiplicate le polemiche sul posto fisso. Secondo una ricerca i giovani sono anche disposti a guadagnare meno pur di conquistarlo. Che ne pensa?
I protagonisti del mio libro sono due amici non perdono mai la speranza perché, in fondo, la nostra forza è il capitale umano. Abbiamo persone straordinarie, su cui dobbiamo investire. Le condizioni esterne sono decisive per la realizzazione di sé. Questa è una riflessione da fare, in un tempo in cui si tende a colpevolizzare paradossalmente chi non riesce. Quante volte abbiamo sentito che si è precari perché non si è capaci? Che si fallisce perché non si ha abbastanza talento? Quante volte ancora dobbiamo sentir parlare di bamboccioni, di sfigati, di fannulloni? I protagonisti del libro dimostrano che non sono loro il problema. E che chi tende a colpevolizzarli fa solo un'operazione di spostamento della responsabilità. La colpa è delle generazioni precedenti, che hanno costruito un'Italia bloccata. E oggi se la prendono con chi ne paga il prezzo. Ecco perché mi scaglio contro il consiglio retorico, fondamentalmente privo di senso, di Jobs - che andava certamente bene per gli Usa ma non per l'Italia. Certo, contano la determinazione, la grinta, la personalità. Se hai talento ma non hai il carattere per provarci fallisci in partenza. Ma basta il carattere? Bastano le qualità interiori? No. Questo vuol dire che è solo colpa del contesto? No. Ognuno di noi ha le sue responsabilità. Ma dico basta alla retorica del «se vuoi fortemente una cosa, la ottieni». A volte, e in certe città, con il mondo che ti gira intorno ostinatamente al contrario, se vuoi fortemente una cosa, probabilmente diventi solo pazzo.
Chiara Del Priore
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