Il labile confine tra opportunità e sfruttamento
12 anni, 3 mesi fa di sicolangeli
Il giorno in cui ho saputo di esser stata selezionata per il tirocinio presso “L’Unità di Analisi e Programmazione-Archivio Storico Diplomatico” del MAE non posso nascondere di aver provato una certa soddisfazione. Avrei avuto la possibilità di un’esperienza nuova e in un’altra città. Non ultimo il bisogno di spendere le mie energie per qualcosa di pertinente ai miei studi e ai miei interessi.
Prima di accettare ho chiesto ai responsabili del tirocinio “Esiste una qualche forma di retribuzione per questo stage?”. La risposta è stata. “Per le sedi italiane non è prevista alcuna forma di rimborso, neanche l’Università per quest’anno ha potuto stanziare contributi”. Infatti chi va all’estero ha almeno il biglietto aereo e alcune Università “virtuose” hanno disposto un rimborso spese, anche minimo, anche per i tirocinanti delle sedi di Roma. Ma non nel mio caso. Mentre saliva l’amarezza e mi domandavo perché non ci fosse modo di reperire fondi per gli stagisti della struttura ministeriale che si occupa dell’immagine e dei rapporti dell’Italia all’estero, ho scoperto che il problema dell’assenza di rimborsi per questo stage non è solo economico, ma legislativo.
Lo ha chiarito il primo giorno il responsabile generale dei tirocini MAE, il sig. De Ceglie, durante la riunione preliminare che ha visto la partecipazione di un centinaio di noi, provenienti da numerose facoltà e da tutt’Italia. “Secondo la legge 196-97 contenuta nel pacchetto Treu (capolavoro del governo di centro sinistra, l’inizio della precarietà giovanile in Italia) è previsto che i tirocini formativi non siano pagati”.
Chiarito anche ufficialmente ogni dubbio su questo aspetto, non restava che buttarsi nella nuova esperienza, di cui mi va di condividere una sorta bilancio finale.
Cominciando dalle “luci”: il lavoro in sé, consistente in attività redazionali, ricerche, organizzazione di convegni e conferenze si è rivelato davvero interessante e ringrazio chi mi ha dato l’opportunità di svolgerlo, nonostante, soprattutto nella fase iniziale, abbia faticato molto ad adattarmi a questo ambiente e alle sue formalità. A volte mi ha impegnato molto, devo dire fino all’ultimo e anche in orari e modalità extra, ma posso dire che questi tre mesi a Roma hanno avuto un senso. Alcuni episodi, atteggiamenti e parole mi hanno dimostrato che quanto ho fatto è stato apprezzato e riconosciuto. Lo stesso non potrebbero dire molti miei “colleghi”, poco coinvolti nelle attività dei loro uffici, quindi portati a trascorrere quel tempo su internet o a trovare ogni scusa per assentarsi. Dunque perché non selezionare meno stagisti e impiegarli secondo criteri di efficacia più che di tempo? Questo dovrebbe valere per l’intera Pubblica Amministrazione, che, dati alla mano, risulta la meno produttiva e la più presente in ufficio d’Europa.
Venendo alle ombre, l’ambiente diplomatico- consolare, come tutti quelli di un certo livello, è competitivo e chiuso, l’apparenza a volte conta più della sostanza e i contatti con le persone giuste sono di primaria importanza nelle nomine e negli incarichi che non sempre premiano il merito. La cordialità e l’educazione spesso variano a seconda del grado di importanza di chi si ha di fronte. Molte delle persone conosciute in questi mesi, forse a causa del loro status economico e sociale sembrano del tutto lontani dalle normali dinamiche del quotidiano. In poche parole i diplomatici rappresentano un’altra casta (salvati persino dalla spending review ) nel senso che Pansa ha attribuito al termine. Personalità al vertice in quest’ambiente hanno dato prove di questi poco nobili atteggiamenti anche nelle situazioni in cui il Ministero avrebbe dovuto mostrare il suo lato migliore: richieste assurde e improvvise, presunzione ed arroganza nei confronti dei sottoposti, assenza di cortesia e considerazione proprio da parte di chi per la sua carica, dovrebbe rappresentare il massimo esempio di savoir faire.
A dimostrazione di questo riporto l’aneddoto tragicomico svoltosi durante la pausa pranzo di un convegno internazionale: pare che una delle responsabili del Cerimoniale (che si occupa proprio dell’organizzazione di convegni, accoglienza degli ospiti ecc..) abbia chiesto alle forze dell’ordine presenti in sala di allontanare dal rinfresco una stagista offertasi volontaria per l’accoglienza degli ospiti durante la giornata.
Questo caso estremo mostra che il problema del confine tra opportunità e sfruttamento si ripropone costantemente non solo agli stagisti MAE ma a tutta la mia generazione, alle prese con un’infinita fase di formazione, da pagare con il sostegno delle famiglie e attraverso secondi e terzi lavori non qualificati. A parte il buon senso, che dovrebbe farci ribellare di fronte alle situazioni più becere e saper farci cogliere le opportunità offerteci in contesti positivi, la soluzione strutturale consisterebbe in una tutela economica e legislativa comune per chi entra nel mondo del lavoro.
Nel frattempo il DDL Fornero ha modificato la legislazione in materia di stage, deliberando che i tirocini post –laurea devono essere necessariamente pagati, a prescindere che si tratti di settore pubblico o privato. Ma la convenzione MAE-CRUI è rimasta inalterata, almeno fino a dicembre. E poi? Con molta probabilità saranno solo gli iscritti all’Università che in cambio dei sospirati crediti formativi, svolgeranno il tirocinio presso il Ministero. I laureati, come nel mio caso, in un’ipotesi ottimistica vedranno riconosciuto finalmente il loro valore anche in termini economici: magari pochissimi e validi, ma retribuiti. In un’ipotesi più pessimistica, o realistica, chi ha ottenuto il sudato pezzo di carta vedrà ulteriormente complicato il suo ingresso nel mondo del lavoro, che se da un lato richiede esperienza, da un altro la nega proprio attraverso i suoi meccanismi.
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