Tito Boeri alla presidenza dell'Inps: perché non piace ai vecchi, perché dovrebbe piacere ai giovani

Eleonora Voltolina

Eleonora Voltolina

Scritto il 21 Gen 2015 in Notizie

Tito Boeri è da poco diventato presidente dell'Inps. Anzi, in realtà bisognerebbe dire che per adesso è solo stato nominato: il consiglio dei ministri ha annunciato il suo nome, ma ora c'è da espletare la trafila burocratica. Che prevede alcuni passaggi: al momento il testo della delibera che sancisce la sua nomina è in commissione lavoro in entrambe le Camere, per un parere; quando li avrà ottenuti dovrà essere votata, poi tornerà al Governo e quindi al Quirinale e infine diventerà un dpr, cioè un decreto del presidente della Repubblica. In caso il successore di Giorgio Napolitano non fosse ancora stato nominato, il decreto potrà comunque essere firmato dal presidente del Senato Pietro Grasso, che al momento ne fa le veci.

La nomina è passata un po' sotto silenzio perché è arrivata il giorno della vigilia di Natale
. Sul sito web ufficiale dell'Inps, a poco meno di un mese dall'annuncio di Renzi, non vi è alcuna traccia di Boeri - tutto è fermo infatti al commissario Treu. Eppure
salvo rivoluzioni tra poco il docente di economia alla Bocconi, tra i fondatori del sito La Voce, dovrebbe insediarsi. E si tratta di una notizia importante.

Boeri, oggi 56enne, è stato infatti in questi anni in prima linea nel denunciare le storture e le iniquità del mercato del lavoro italiano
, i soprusi subiti dai giovani dal punto di vista della retribuzione e delle tutele, il grande pericolo della scarsa contribuzione che porterebbe - porterà - nel 2030-2040 a una schiera di pensionati poveri: i sottopagati di oggi che diventeranno domani sottopensionati. Boeri ha detto e scritto queste cose innumerevoli volte, ha lavorato a proposte di legge per riformare il mercato del lavoro. Una volta che si sarà insediato al vertice dell'Inps, potrebbe fare la differenza.

Le due richieste che già gli avanza la Repubblica degli Stagisti sono semplici. La prima: mandare finalmente le famose "buste arancioni" a tutti gli iscritti alla gestione separata, con il prospetto dell'ammontare dell'assegno pensionistico futuro in base ai contributi finora versati. Gli iscritti sono quei circa tre milioni e mezzo di persone che non hanno un contratto di lavoro di tipologia subordinata e non fanno riferimento a casse previdenziali di categoria (come l'Inpgi gestione separata per i giornalisti, etc). Questi tre milioni e mezzo di contribuenti ogni anno versano otto miliardi di euro nelle casse dell'istituto alla cui testa tra poche settimane arriverà Tito Boeri.

Sono anni che si parla di queste famose buste arancioni, ma il precedente presidente - il famoso Antonio Mastrapasqua, quello con i venti e più incarichi - a un convegno nell'ottobre del 2010 si lasciò scappare la celeberrima frase «Se dovessimo dare la simulazione della pensione ai parasubordinati rischieremmo un sommovimento sociale» e infatti continuò per anni a rimandare, sperando che tutti se ne dimenticassero. Non ce ne siamo dimenticati. Dunque professor Boeri, bando alle ciance: mandi ai precari i prospetti delle pensioni, si prenda la responsabilità di alzare il sipario sul futuro, in modo che anche la politica possa prendere finalmente coscienza del problema e agire di conseguenza.

La seconda richiesta: fare chiarezza sull'ammontare dei contributi silenti, cioè quelle quote contributive versate dai lavoratori che non sono sufficienti ai fini della maturazione di una pensione minima, e che però non vengono restituite - come accade in molti Paesi civili - ai contribuenti né sotto forma di prestazione previdenziale, né come rimborso in un’unica soluzione. Questi soldi vengono incamerati dall'Inps e usati per pagare le pensioni a chi ne ha maturato pieno diritto.

Boeri conosce bene la materia. Prova ne sia che tra le altre cose, nel 2011 aveva anche firmato l'introduzione del saggio Senza pensioni, scritto da Walter Passerini e Ignazio Marino e pubblicato dalla casa editrice Chiarelettere, definendo così il merito del libro: «documentare queste iniquità, per una volta soffermandosi soprattutto su quelle intragenerazionali anziché solo su quelle intergenerazionali» e complimentandosi con gli autori per aver fatto emergere  «le differenze fra i trattamenti riservati ai lavoratori dipendenti e a quelli di diverse categorie di lavoratori autonomi» e «gli effetti dell’assenza di tetti alle pensioni definite con il metodo retributivo, con trattamenti pensionistici che superano i 90mila euro all’anno».

Rileggere quelle pagine è molto interessante per capire l'approccio del prossimo presidente dell'Inps rispetto al tema delle pensioni come voce principale di spesa dello Stato italiano: «La spesa corrente è fatta per più del 40 per cento di pensioni. La parte restante è rappresentata dalla spesa per beni pubblici quali difesa, istruzione, giustizia, sanità, ambiente, cultura, ammortizzatori sociali e assistenza. Se non si toccano le pensioni bisogna operare tagli della spesa per istruzione, sanità, giustizia e per gli altri beni pubblici dell’ordine del 12 per cento in un biennio».

Ovviamente Boeri è convinto che gli sprechi nella gestione dei fondi pubblici siano molti, e che sarebbe possibile cominciare a tagliare quelli prima di andare a ridurre prestazioni essenziali come l'istruzione e la cultura, ma è ben consapevole che le spending review "ragionate" non piacciono ai politici, poco inclini a ridurre le proprie prebende; e dunque che se non si riducono le pensioni tagli consistenti alla spesa pubblica «possono essere conseguiti in tempi ristretti solo facendo pagare di più gli utenti di questi servizi (la spesa alberghiera negli ospedali, la scuola ecc.) che oggi vengono già in Italia forniti in quantità e qualità minore che in molti altri paesi a simile grado di sviluppo. Non sembra perciò neanche immaginabile un processo di riduzione del debito pubblico senza intervenire sulla spesa previdenziale».

L'idea di fondo di Boeri è che in Italia per molti anni si sia andati in pensione troppo presto: «Negli ultimi 40 anni, abbiamo guadagnato circa 10 anni di vita. La longevità è cresciuta a un ritmo impressionante e imprevisto: due anni e mezzo ogni dieci». Il professore certamente non si rammarica di questo aumento dell'aspettativa di vita, ma osserva che esso incide non poco sull'equilibrio finanziario del sistema previdenziale e sulle casse dello Stato: «Non sarebbe stato un problema per la sostenibilità della spesa pensionistica, se le persone avessero cominciato a lavorare più a lungo, destinando la stessa percentuale di tempo di vita all’inattività. Invece, mentre aumentava la speranza di vita, gli italiani hanno iniziato a lavorare sempre di meno». E gli esempi che porta sono impressionanti: «I nati nel 1925 lavoravano, in media, 45 anni, mentre i nati nel 1945 lavorano 8 anni in meno. Il fatto è che si inizia a lavorare più tardi e ci si ritira prima dalla vita attiva: negli anni Sessanta si andava in pensione a 63 anni, oggi a 59. Ne consegue che le pensioni oggi vengono erogate per molti più anni, facendone lievitare i costi».

E chi paga queste pensioni? Boeri spiega che «questi trattamenti pensionistici sempre più costosi vengono pagati da chi lavora, con la promessa che, quando andranno in pensione, verranno trattati allo stesso modo. Ma il maggiore costo delle pensioni unito al calo delle nascite (quindi del numero di coloro che in futuro pagheranno le pensioni di chi si ritira dalla vita attiva) hanno reso questo patto intergenerazionale insostenibile e iniquo». I giovani di oggi si ritrovano dunque un macigno sulle spalle, costituito dall'ammontare delle generose pensioni di chi ha già smesso di lavorare o smetterà nei prossimi anni: «Oggi chi lavora versa, tra contributi e tasse sui redditi, circa il 45 per cento dei propri salari a chi è in pensione e che, a suo tempo aveva trasferito ai pensionati di allora non più del 30 per cento del proprio stipendio. Di più, chi ha iniziato a lavorare negli ultimi 10 anni sa che riceverà una pensione molto più bassa (dal 20 al 30 per cento inferiore, in rapporto all’ultimo salario) di chi va oggi in pensione».

Risultato, nessuno vuole più saperne di contributi così alti: «La tassa imposta da chi è in pensione su chi lavora sta diventando così alta che i datori di lavoro la pagano sempre di meno: si creano posti che prevedono contributi previdenziali più bassi (dai Co.co.co. ai contratti a progetto) e si pagano salari inferiori, il che significa che la tassa viene fatta pagare ai lavoratori. Chi oggi inizia a lavorare ha un salario netto di ingresso del 15 per cento inferiore a chi iniziava a lavorare dieci anni fa. Il risultato è che questi nuovi entrati rischiano, pur lavorando 45 anni come si faceva una volta e pagando ai pensionati una tassa molto più alta di allora, di non arrivare a maturare i requisiti per una pensione al di sopra del livello di sussistenza. Cornuti e mazziati, verrebbe da dire. E non serve alzare i contributi, se non si riduce la tassa previdenziale che grava sul lavoro».

In quelle pagine Boeri non si è limitato a descrivere l'esistente e tessere le lodi del libro, ma ha indicato con decisione la necessità da parte della politica di farsi carico del problema e di immaginare soluzioni sostenibili e immediatamente efficaci: «È molto importante andare oltre la denuncia dello status quo. Un sistema pensionistico sostenibile ed equo dovrebbe definire il livello dei trattamenti pensionistici in base a quanto si è effettivamente versato durante tutta la vita lavorativa e tenere conto del numero di anni in cui si finirà, presumibilmente, per fruire del trattamento». Uno scontro frontale con i sostenitori - quasi tutti, va da sé, pensionati o pensionandi - del vecchio sistema retributivo, ormai non più in vigore, che ha assicurato per decenni a chi andava in pensione la corresponsione di un assegno pensionistico mensile praticamente uguale all'ultimo stipendio, indipendentemente dall'ammontare dei contributi versati negli anni lavorati. Un vero e proprio regalo "a babbo morto", che adesso si ritrovano a dover pagare tutti quelli nati dagli anni Settanta in poi.

Boeri però non è d'accordo nemmeno con chi propone di tagliare le pensioni in essere: «Dato che non si è fatto nulla quando si poteva intervenire sull’età di pensionamento, adesso i politici che vogliono ridurre la spesa pensionistica rivolgono sempre di più la loro attenzione sulle pensioni in essere. Si prospettano cambiamenti nelle regole di indicizzazione, se non veri e propri tagli forzosi delle prestazioni più alte. Si tratta di interventi del tutto arbitrari, il cui unico scopo è fare cassa, ignorando o addirittura aumentando le storture, le sperequazioni del nostro sistema previdenziale» - da notare che queste righe erano state scritte prima della riforma Fornero.

«Sarebbe molto più equo, perché coerente con la transizione al sistema contributivo, indicizzare le pensioni al di sopra dei minimi sociali, alla crescita economica, così come avviene in Svezia» concludeva Boeri nell'introduzione del saggio di Passerini e Marino: «Non solo permetterebbe di ottenere risparmi sostanziali sulla spesa pensionistica in caso di bassa crescita, ma determinerebbe una compartecipazione dei pensionati alle perdite o ai guadagni dell’economia. Perché sin quando le pensioni saranno una variabile indipendente, la crescente popolazione dei pensionati non avrà alcun interesse a sostenere politiche per la crescita».
 
La maggior parte dei pensionati di oggi infatti non gradisce la sua nomina: quelli di domani invece dovrebbero, perché se Boeri manterrà saldi i principi che ha sempre predicato negli ultimi anni, lavorerà per ridurre le iniquità e per assicurare ai venti-trentenni di oggi una pensione dignitosa per domani.

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