Se capisci questo articolo, allora probabilmente non ti riguarda. È questa una prima paradossale conclusione che deriva dall’analisi dei nuovi test Pisa dell’Ocse, riferiti al 2018, sul grado di alfabetizzazione letteraria, scientifica e matematica dei giovani italiani. Una conclusione appunto paradossale, tristemente ironica – ma anche tutto sommato fasulla. Perché forse non sarai tu il giovane con problemi di alfabetizzazione; ma è innegabile che la diffusione di queste mancanze, specialmente tra le persone più giovani, crea quella che gli economisti chiamano un’esternalità negativa per tutta la società. Insomma, le conseguenze di questo problema non sono solo personali ma si ripercuotono su tutti. E sì, anche su di te, che stai ancora leggendo questo articolo – e che già stavi davvero pensando che il problema non ti riguardasse...
Ma cosa sono i test Pisa? Si tratta di una serie di questionari standardizzati (“Pisa” è l’acronimo di sta per “Programme for International Student Assessment”), rivolta ogni tre anni agli studenti di quindici anni dei paesi Ocse – l'Organizzazione per la Cooperazione e lo sviluppo economico – e che dovrebbe stabilire il grado di conoscenze e di abilità acquisite nel corso degli studi. Il test, non esente da limitazione e che pure è stato in passato criticato per la sua impostazione e omogeneità, è però ormai somministrato sin dal 2000, e si focalizza sui risultati ottenuti dagli studenti rispetto alla comprensione di testi, alla matematica e infine ai temi scientifici. In Italia, la ricerca ha riguardato quasi 12mila studenti – poco più del 2% del totale – e 550 scuole (i partecipanti all'indagine a livello mondiale sono stati oltre 500mila in 79 Paesi).
I risultati sono piuttosto impressionanti. L’Italia si classifica ben sotto la media dei paesi Ocse in lettura e scienze, mentre è solo appena sotto la media per matematica. Peraltro i risultati per lettura e scienza segnano un peggioramento rispetto al 2012.
Analisi più settoriali permettono di evidenziare alcune differenze piuttosto interessanti rispetto al genere e al territorio di residenza. In generale, in Italia e negli altri paesi, le femmine ottengono risultati migliori dei maschi in lettura e peggiori in matematica, mentre ottengono risultati simili, specialmente in Italia, in scienze. Tuttavia, il peggioramento nella capacità di comprensione dei testi, in Italia, è dovuto proprio al calo di questa competenza tra le femmine.
Queste differenze non cancellano molti stereotipi di genere rispetto alle professioni. Tra gli studenti migliori al test, il un quarto dei maschi prevede di lavorare in campo scientifico mentre un quarto delle femmine prevede di lavorare in professioni sanitarie; solo il 12% delle femmine crede che lavorerà in campo scientifico.
Dal punto di vista geografico, solamente un numero molto limitato di regioni e province costituisce un campione sufficientemente ampio da permettere un’analisi specifica. Da ciò, emerge come i giovani nelle province autonome di Trento e Bolzano abbiano conseguito risultati paragonabili a quelli dei migliori paesi della classifica, i giovani toscani risultati simili alla media nazionale e invece quelli sardi risultati peggiori.
Vale la pena di sottolineare come le mancanze evidenziate da questi test Pisa non siano le uniche che caratterizzano i giovani italiani nello specifico e la popolazione italiana più in generale. Per esempio, scarsa è anche la conoscenza dei temi economici e politici. L’educazione civica non entra ormai da tempo – o lo fa solo formalmente - nei curricula delle scuole superiori. E in test simili la performance del nostro paese per quanto riguarda l’educazione finanziaria è ancora al di sotto della media. Ma non è un problema solo di giovani: performance anche peggiori sono infatti documentate rispetto all’intera popolazione.
Di chi è la responsabilità? Degli studenti, certo. Del resto, lo sappiamo tutti: i giovani sono pigri, non rispettano più i valori. E nemmeno gli anziani. O... no? Troppo comodo scaricare come al solito le responsabilità di un fallimento sulle persone più deboli, e incolpare quelle che invece sono le vittime.
Proviamo piuttosto a guardare quanto il paese ha deciso di investire sul capitale umano dei suoi giovani. In fondo non ci vorrebbero neppure troppe risorse, in termini assoluti. L’Italia è un paese anziano, la quota di giovani è inferiore rispetto a quella di altri paese. Proprio per questo, potrebbero essere maggiormente valorizzati. E invece i dati raccontano una storia ben diversa: innanzitutto, secondo la ricerca Pisa, i presidi italiani denunciano maggior carenza di staff e di materiale rispetto alla media degli altri paesi. Un’ulteriore ricerca dell’Ocse indica che il corpo docente in Italia è il più anziano tra i paesi dell’Ocse; addirittura, nei prossimi dieci anni l’Italia dovrà prepararsi a sostituire circa il cinquanta per cento dei propri docenti. Gli stipendi di partenza sono inferiori alla media, così pure come quelli massimi raggiungibili a fine carriera.
In Italia si spendono 66,1 miliardi di euro per l’istruzione (Eurostat, 2017), l’8% della spesa pubblica totale: poco meno della spesa per gli interessi passivi sull’enorme debito pubblico e meno di un terzo di quella pagata per le pensioni. Si tratta di una percentuale inferiore al 4% del PIL, quando la media europea è di oltre il 4,5%. Comunque la si misuri, la spesa per istruzione è in calo ormai da oltre dieci anni.
Seppure coi loro limiti, i risultati del test Pisa sollevano quindi giuste preoccupazioni. Stupisce in effetti chi si stupisce: se da decenni ormai il paese ha smesso di investire nella scuola, nella valorizzazione degli insegnanti, nell'aggiornamento dei curricula, nella sicurezza degli edifici, nella lotta agli ancora troppo numerosi abbandoni scolastici, è inutile poi dichiararsi sorpresi da questi risultati. Le conseguenze di questo disastro sono sia individuali che sociali. Dal punto di vista individuale, giovani di oggi (e adulti di domani) senza adeguate conoscenze avranno maggiori difficoltà a trovare un lavoro e ad effettuare scelte strategiche per la propria vita. Dal punto di vista sociale, invece, l’incapacità di comprendere la complessità dei fenomeni si accompagna necessariamente con l’accontentarsi di spiegazioni semplici e semplicistiche. In ultima analisi, un vero e proprio rischio: non solo per i rapporti economici e di lavoro ma anche per la qualità della nostra democrazia.
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