«Il servizio volontario europeo in Romania mi ha insegnato che tutto è possibile»

Daniele Ferro

Daniele Ferro

Scritto il 04 Giu 2015 in Storie

La Repubblica degli Stagisti prosegue la rubrica sullo Sve, con l'obiettivo di raccogliere e far conoscere le esperienze dei giovani italiani che hanno svolto il Servizio volontario europeo, una particolare - e ancora poca conosciuta - opportunità offerta dal programma europeo Erasmus+ ai giovani tra i 17 e i 30 anni. Grazie allo Sve, che copre i costi di viaggio, vitto, alloggio e garantisce un “pocket money” mensile per le spese personali, è possibile svolgere un'attività di volontariato, per un periodo dai 2 ai 12 mesi, in uno dei Paesi dell’Unione europea o in altri Paesi del mondo che hanno aderito al programma. Sono molti i settori nei quali i giovani possono impegnarsi: arte, sport, ambiente, cultura, assistenza sociale, comunicazione, cooperazione allo sviluppo e altri ancora. Per partire - dopo essersi candidati al progetto - è necessario avere un’organizzazione di invio in Italia (sending organization) e una di accoglienza nel Paese ospitante (hosting organization). Per avere maggiori informazioni sul Servizio volontario europeo, consigliamo di leggere la sezione dedicata dell’Agenzia nazionale per i giovani. Ecco la storia di Marisa Radogna.

Ho 32 anni e sono nata e cresciuta a Irsina, un piccolo paese vicino a Matera, dove ho frequentato il liceo classico. Poi mi sono trasferita a Lecce per studiare Sociologia, sia per la triennale sia per la specialistica. Ho concluso l’università quattro anni fa, a marzo, e qualche mese dopo la laurea, l’università del Salento ha pubblicato un bando Leonardo da Vinci per tirocini all’estero.

Sono stata selezionata e il Leonardo è stata la mia prima esperienza professionale importante, perché prima avevo fatto solo la cameriera per un paio di stagioni, in un bar del mio paese e in un ristorante di Lecce. Grazie al progetto Leonardo, da marzo a luglio 2012,  ho lavorato a Bucarest con Salvați copiii, la sezione romena dell’ong Save the Children. In particolare ho affiancato lo staff che operava in uno dei centri dell’associazione, a Rahova, un quartiere povero della città dove per lo più vivono rom, con molte problematiche legate alla dispersione scolastica. L’attività principale era il doposcuola, e io con l’aiuto di una bravissima insegnante mi occupavo di educazione non formale. Questa esperienza mi ha insegnato molto e ho imparato il rumeno.

Finito il Leonardo sono rientrata in Italia e mi sono scontrata con le difficoltà di trovare un lavoro, soprattutto al Sud. Così ho ricominciato a pensare al Servizio volontario europeo, che avevo scoperto per caso navigando in rete prima di partire per il Leonardo. L’idea di fare lo Sve non era un ripiego, perché ho pensato che potesse aggiungere qualcosa in più alla mia formazione. Il tirocinio in Romania mi aveva fatto capire che mi sarebbe piaciuto lavorare in un’associazione.

A gennaio del 2013 ho visto su Facebook l’annuncio di un’organizzazione di Bologna, YouNet, che cercava un volontario da inviare per un anno a Bucarest. Mi sono candidata e dopo due giorni sono stata contattata per mail dalla presidente di Actor, l’associazione di accoglienza romena. Mi hanno chiesto un colloquio e qualche giorno dopo ci siamo sentiti su Skype. Alla fine mi hanno detto subito:
«Sei dei nostri». Erano entusiasti perché sapevo il romeno. A Bucarest sono arrivata il primo maggio del 2013. Nel tragitto dall’aeroporto a quella che sarebbe stata la mia casa, tutto mi era familiare. L’appartamento in cui avrei vissuto per un anno si trova in un’area popolare nella parte sud di della città. Al primo impatto il quartiere non fa una buona impressione. È un insieme di palazzi tutti uguali, dai colori tristi. I primi giorni faticavo a trovare la strada di casa o quella del supermercato.

All’inizio, come mi era stato detto, ho condiviso una stanza con Miriana, una ragazza siciliana, e l’appartamento con l’estone Eliise e il lituano Mantvydas. Poi però da ottobre sono rimasta in camera da sola e sono arrivate altre volontarie al posto di quelle iniziali. La cosa bella di questo progetto è che ho conosciuto volontari da tutto il mondo, che erano coinvolti in altri progetti Sve della mia host organization. C’erano ragazzi da quasi tutti i Paesi d’Europa, e poi da Ghana, Nepal, Argentina, Perù, Georgia, Armenia… Eravamo in tutto una ventina: vivevamo in appartamenti vicini, ci ritrovavamo spesso a cenare insieme, soprattutto quando era il compleanno di qualcuno e l’associazione provvedeva a rifornirci di torta e spumante. Ovviamente non era sempre tutto così facile come durante le feste. Non ci sono mai stati grossi momenti di tensione, ma in alcune occasioni il confronto tra di noi è stato complicato, quando oltre alle nostre personalità pesavano le nostre culture di appartenenza. Ma siamo stati bravi a trovare un equilibrio e alla fine il gruppo ha creato legami saldi nel tempo.

Venendo alle attività, devo dire che tutto era molto ben organizzato: ogni settimana ricevevamo una tabella con il programma dettagliato della settimana successiva. Per un anno abbiamo lavorato in diverse scuole primarie e per l’infanzia di Bucarest, presentando le nostre culture ai bambini con racconti, giochi e attività manuali. Ad esempio io, conoscendo il rumeno, parlavo delle tradizioni della mia terra, raccontavo le storie degli spiritelli che fanno i dispetti alle persone nelle case dove si nascondono i briganti, oppure scrivevamo filastrocche. Ognuno dei volontari doveva inventare attività che facessero riferimento alla propria cultura, con l’obiettivo di farla conoscere ai bambini. Prima di lavorare nelle scuole abbiamo seguito training per imparare a strutturare le nostre attività in base all’età dei bimbi. Periodicamente andavamo in alcuni centri rurali per dare la possibilità anche a coloro che vivevano in quei luoghi di avere accesso all’ educazione interculturale. Oltre che istruttivo, per me è stato molto divertente prendere parte a queste attività. I bambini erano curiosi e attenti, sempre pieni di domande: per me è stato un modo per rispolverare cose che davo per scontato e su cui non mi interrogavo più.

Un’altra attività era l’animazione clinica per bambini, in quattro ospedali di Bucarest. Un’esperienza decisamente più difficile dal punto di vista emotivo, ma la felicità dei piccoli pazienti era sempre uno stimolo a fare meglio. In ospedale, oltre a chiacchierare, facevamo palloncini, origami, raccontavamo storie e giocavamo con i bambini. O almeno con quelli che si potevano muovere. In molti casi i piccoli erano affetti da patologie gravi, e la prima volta che sono andata in ospedale avevo un po’ d’ansia: è scioccante vedere bambini sofferenti. Sono però riuscita ad impormi con me stessa, per rimanere lì a giocare e sorridere anche quando era molto difficile. Perché far smettere di piangere un bambino, fargli dimenticare i dolori dell’operazione anche per soli cinque minuti, è una grande soddisfazione. Tutti i bambini con cui ho lavorato, non solo quelli in ospedale, mi hanno ringraziato con un’enorme ondata di affetto: sono tornata a casa con un pacco pieno di disegni.

Il mio progetto è stato pienamente rispettato, per l’alloggio non ho avuto problemi e anche dal punto di vista economico è filato tutto liscio: con l’equivalente in Leu dei 60 euro che ricevevamo al mese come pocket money, più 90 per il vitto, non ho mai dovuto intaccare i miei risparmi. E poi Bucarest è una città affascinante, molto vivace dal punto di vista culturale e ricca di parchi meravigliosi. Ma è una città che soffre molte contraddizioni: se da un lato non ha nulla da invidiare alle altre capitali  europee, nel contempo ci si può imbattere in realtà inimmaginabili, come quel mondo sotterraneo di emarginati che vive nelle fogne raccontato in un reportage di Channel 4.

Credo che per me lo Sve abbia avuto un alto valore professionale. La metodologia dell’educazione non formale, alla quale purtroppo si attribuisce ancora poca importanza, ha arricchito molto le mie competenze. E poi ho imparato ad affrontare situazioni imprevedibili. Se ad esempio ti aspetti di lavorare con dieci bambini in una classe e poi ce ne sono venti, devi cambiare il programma e adattarlo agli spazi ridotti. E devi farlo in fretta perché magari hai solo un’ora. Oppure ho imparato a creare attività a partire da materiali semplici, come la carta. Inoltre ho decisamente migliorato il mio inglese, e anche il romeno che avevo già studiato durante il Leonardo. Ora ho un livello C1 di romeno, certificato con un esame che ho voluto sostenere prima di tornare in Italia.

A proposito del ritorno a casa, non mancano i momenti di sconforto, perché è da un anno che sto cercando un lavoro. Sto solo dando qualche ripetizione scolastica. Come molti miei coetanei che si trovano a vivere in questa fase storica, ho qualche difficoltà ad immaginarmi il futuro, ma non demordo anche perché lo Sve mi ha insegnato a trovare soluzioni. D’altronde il motto della mia hosting organization era «Se vuoi tutto è possibile.
"Non posso" non esiste». Perciò spero di avere risposte positive alle domande di lavoro che sto mandando un po’ dappertutto, ma in particolare a Bucarest. È lì che vorrei tornare, per lavorare in un’associazione.

Testo raccolto da Daniele Ferro

@danieleferro
 

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