«Lo Sve in Croazia mi ha aperto nuove prospettive, ora punto ad andare in Sudamerica con il servizio civile»

Daniele Ferro

Daniele Ferro

Scritto il 08 Mag 2015 in Storie

La Repubblica degli Stagisti prosegue la rubrica sullo Sve, con l'obiettivo di raccogliere e far conoscere le esperienze dei giovani italiani che hanno svolto il Servizio volontario europeo, una particolare - e ancora poca conosciuta - opportunità offerta dal programma europeo Erasmus+ ai giovani tra i 17 e i 30 anni. Grazie allo Sve, che copre i costi di viaggio, vitto, alloggio e garantisce un “pocket money” mensile per le spese personali, è possibile svolgere un'attività di volontariato, per un periodo dai 2 ai 12 mesi, in uno dei Paesi dell’Unione europea o in altri Paesi del mondo che hanno aderito al programma. Sono molti i settori nei quali i giovani possono impegnarsi: arte, sport, ambiente, cultura, assistenza sociale, comunicazione, cooperazione allo sviluppo e altri ancora. Per partire - dopo essersi candidati al progetto - è necessario avere un’organizzazione di invio in Italia (sending organization) e una di accoglienza nel Paese ospitante (hosting organization). Per avere maggiori informazioni sul Servizio volontario europeo, consigliamo di leggere la sezione dedicata dell’Agenzia nazionale per i giovani. Ecco la storia di Diana Cossi.

Ho 24 anni e vivo a Germignaga, una graziosa cittadina alle pendici delle Prealpi lombarde sulle sponde del lago Maggiore, in provincia di Varese. Sono sempre stata molto legata ai boschi e ai corsi d’acqua del mio paese e credo sia per questo che non ho voluto trasferirmi per studiare. Così mi sono abituata alla vita da pendolare: sveglia presto la mattina e rientro la sera. Alla fine del 2012 mi sono laureata in Mediazione linguistica e culturale, un corso triennale al polo di Sesto San Giovanni dell’università degli studi di Milano. Ora sto aspettando le selezioni per un progetto di Servizio civile in America Latina, al quale ho fatto domanda quando sono tornata dal Servizio volontario europeo.  Ma partiamo dall’inizio.

A quattro anni, quando mia madre mi portò a vedere il museo egizio di Torino, decisi che avrei fatto l’archeologa. Ma poi durante il liceo scientifico, con indirizzo socio-psicopedagogico, ho fatto volontariato in un doposcuola, aiutando gli alunni con i compiti e insegnando italiano agli studenti figli di immigrati. Ho così capito che il mio obiettivo era essere utile alle persone, anche se l’archeologia è rimasta una mia grande passione. Avrei potuto dedicarmi ad una professione sanitaria, come i miei genitori, ma ho deciso di diventare mediatrice culturale.

Al terzo anno di università, per il tirocinio mi sono rivolta alla mia vecchia scuola, con la quale ho firmato una convenzione: ho insegnato italiano a due fratelli olandesi appena arrivati in Italia ed ho avuto la soddisfazione di vederli comunicare in un italiano stentato ma chiaro dopo solo tre mesi di lavoro.

Finita la triennale ho lavorato per un anno come cameriera in un piccolo ristorante, frequentato per lo più da turisti tedeschi e olandesi, un’esperienza che mi ha permesso di migliorare l’inglese e di imparare molto sulle persone e sul mondo del lavoro. Per aumentare le possibilità di trovare un impiego come mediatrice culturale, in scuole o in sedi diplomatiche, a settembre del 2013 mi sono iscritta a un altro corso di laurea triennale a Milano: Scienze internazionali ed istituzioni europee.

Intanto, però, avevo già deciso che sarei andata a fare esperienza fuori dall’Italia. Ad aprile la mia ormai ex università aveva organizzato un evento sulle opportunità all’estero. Un incontro informativo sul programma Youth in Action, quello che oggi è l’Eramus +, era tenuto dall’associazione Joint di Milano. Così ho scoperto il Servizio volontario europeo ed ho accantonato le altre idee per andare all’estero. Ho scelto con cura il progetto per cui fare domanda, visto che avevo il lavoro al ristorante e non c’era fretta. Volevo stare all’estero il più a lungo possibile e andare nei Balcani.

Ho trovato il giusto progetto grazie anche all’aiuto dell’associazione Joint, che mi ha consigliato di mandare direttamente una candidatura per i progetti che mi interessavano sul database Sve, anche se le selezioni magari non erano aperte. L’importante era indicare da subito una sending organization, nel mio caso la Joint. Ho spulciato nel database tutti i progetti nei Balcani, mandando decine di mail per presentarmi e chiedere se cercassero volontari. A fine agosto mi è arrivata la tanto sperata risposta da un’associazione della Croazia, che mi ha chiesto un colloquio su Skype. Il giorno dell’appuntamento mi sono vestita di tutto punto e ho indossato la mia collana portafortuna. Ero agitatissima. Ma il colloquio è andato bene e dopo pochi giorni mi hanno comunicato che ero stata selezionata, aggiungendo che sarei partita a febbraio, ma intanto bisognava aspettare la conferma del finanziamento del progetto da parte della Commissione europea, che poi è arrivata con molto ritardo: il 23 dicembre. [Nella foto in alto, la costruzione della "casa celtica"]

Il 3 febbraio del 2014 sono così partita per Gvozd, un paesino croato di circa tremila abitanti a 40 chilometri dal confine bosniaco. Sono rimasta con la mia hosting organization, l’associazione "Suncokret" (Girasole) un anno: fino al 31 gennaio scorso. Con me c’era un’altra volontaria, la spagnola Blanca, con la quale ho sviluppato un bellissimo rapporto di amicizia. Ma ho condiviso la mia avventura con molte altre persone, anche se magari solo per piccoli periodi. L’associazione infatti ha organizzato campi di lavoro estivi e ha accolto volontari Sve anche per progetti di breve termine, come Noora, un’artista finlandese piena di talento che è stata con noi per tre mesi. Una ragazza persa nel suo mondo ma dal cuore grande: vivere con lei mi ha insegnato ad essere molto paziente. La flessibilità mentale è una virtù sottovalutata.

Abbiamo vissuto in una casa in un vasto terreno, di proprietà dell’associazione, dove c’era anche un’altra casa, due orti biologici, la zona per il compost e due docce solari. Con l’orto abbiamo educato i bambini al rispetto della natura attraverso laboratori di permacultura e coltivazione biologica. Come attività educativa abbiamo anche costruito un’altra casa, completamente eco-sostenibile, detta "casa celtica" perché realizzata con paglia, legno e fango, a forma tonda così come la costruivano i celti.

Il nostro impegno quotidiano era nel centro giovanile dell’associazione, dove tenevamo corsi (ad esempio sull’igiene dentale, sulla lotta agli stereotipi, sui diritti del bambino) e laboratori manuali con materiali di riciclo. Inoltre aiutavamo i bambini con i compiti e giocavamo con loro. Ho anche tenuto un corso di lingua italiana e uno di danza orientale, che è riuscito ad attrarre anche le madri dei bambini al centro. Queste attività avevano l’obiettivo di creare un ambiente armonioso per i bambini: Gvozd si trova in un’area molto depressa della Croazia, fu praticamente raso al suolo durante la guerra degli anni ‘90 e i suoi abitanti, a maggioranza serba, hanno dovuto abbandonarlo e sono stati rimpiazzati dagli esuli croati espulsi dalla vicina Bosnia. Adesso i serbi stanno tornando alle loro case, ma non le trovano o le vedono occupate da altri. Il tutto è complicato dalla situazione di profonda povertà in cui versano molte famiglie, il tasso di disoccupazione è altissimo, così come i casi di alcolismo. [Nella foto in alto, Diana a Orahovica, in Croazia, per il training di medio termine con gli altri volontari Sve del Paese] 

In estate le attività sono state diverse perché c’erano i campi di lavoro nella proprietà dell’associazione, abbiamo accolto studenti delle scuole croate e un centinaio di ragazzi belgi. Io e Blanca abbiamo coordinato attività manuali, come nell’orto e nella cucina, e abbiamo fatto animazione. I campi ci hanno dato l’opportunità di conoscere tantissime persone, e nel frattempo sono arrivate altre volontarie per progetti di breve termine, come due ragazze turche: entrambe si chiamano Tuğçe e per distinguerle usavamo i soprannomi Uno e Due!

Poi a settembre sono arrivati Tugberk e Yussuf, anche loro turchi, Elena, tedesca, Agathe e Fanny, francesi. Con queste ultime tre abbiamo vissuto in casa, ognuna di noi aveva la propria stanza ma all’inizio la "simbiosi" tra me e Blanca è stata spezzata. Ma dopo una settimana ci eravamo già abituate alla nuova situazione. Passati alcuni giorni ho vietato ad Agathe, che non sapeva l’inglese, di farsi tradurre le conversazioni: le ho detto che volevo imparare il francese e per potermelo insegnare lei aveva bisogno di quella lingua. Ha funzionato. La sua timidezza è svanita quasi magicamente. Quando io me ne sono andata, Agathe era tranquillamente in grado di parlare in inglese. E anch’io, grazie allo Sve, ho migliorato molto il mio livello, in aggiunta allo spagnolo, visto che lo parlavo con Blanca [nella foto a sinistra, Diana con le sue compagne d'avventura, a Sarajevo].

Grazie ai soldi che ricevevamo come pocket money, 95 euro al mese, non ho dovuto intaccare i miei risparmi per la vita quotidiana e così ho potuto usarli per viaggiare, e molto, in tutti i Balcani. Con Elena e Agathe ho ad esempio passato il capodanno a Belgrado e poi abbiamo girato per dieci giorni guidando per più di tremila chilometri.

Purtroppo la mia esperienza Sve non si è conclusa bene nei rapporti con la responsabile dell’associazione. Noi non ricevevamo soldi per il vitto, stabiliti in 115 euro al mese, ma ci facevano la spesa in base ad una nostra lista. Nessun problema fino a settembre, poi hanno iniziato a dirci che le nostre richieste erano troppo costose e così non arrivava tutto ciò che chiedevamo. A dicembre abbiamo chiesto di avere direttamente i soldi per il vitto e così è successo, ma la responsabile dell’associazione, tornata da una vacanza completamente cambiata, perché sembrava che odiasse tutti, non ha digerito la cosa. L’ultimo mese, a causa del rapporto che si era rotto con lei, è stato carico di tensione, ma anche questo alla fine mi è servito: ho imparato a controllare le mie emozioni e ad essere paziente.

Dal punto di vista professionale, invece, grazie allo Sve ho anche imparato a scrivere progetti europei, come gli scambi giovanili, e questo ha cambiato le mie prospettive. Lo Sve, facendomi scoprire un altro ambito rispetto a quello verso cui ero proiettata - l’insegnamento con i bambini - mi ha aperto al mondo dell’associazionismo ed ora è in questo campo che voglio fare esperienza. Per questo al rientro in Italia mi sono candidata per un progetto di Servizio Civile in America Latina, che vedo come una prosecuzione del mio Sve, nel quale sono coinvolte le donne e i bambini in progetti di animazione ed educazione.

Adesso sono in attesa della selezione, nel frattempo do ripetizioni a molti ragazzi, vado in università tre volte a settimana e partecipo a scambi giovanili con la mia ormai ex sending organization. Nelle settimane scorse sono stata in Portogallo e a Cipro. Lo Sve mi ha aperto nuove porte, per questo ne parlo con molte persone e mi sono resa disponibile con varie associazioni di Varese per fare conoscere questa grande opportunità. È un’esperienza che consiglio a tutti coloro che hanno la curiosità di scoprire ed imparare.

Testo raccolto da Daniele Ferro
@danieleferro 
 

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