Sono il fenomeno degli ultimi tempi: hanno permesso a tanti giovani di crearsi un’attività in periodo di crisi e a molti altri di riposizionarsi sul mercato grazie alle nuove competenze acquisite. Eppure le start up non sono in piena salute in Italia. Secondo una ricerca condotta dalla Claai (Confederazione delle libere associazioni artigiane italiane) su dati forniti dalla Camera di commercio di Monza e Brianza, un’impresa su tre di quelle che chiude ha meno di quattro anni e una delle regioni più segnate dal fenomeno è la Lombardia. Significa, quindi, che non c’è spazio per le start up nel nostro paese?
La Repubblica degli Stagisti ha provato a capirlo parlando con Marco Accornero, 54 anni, segretario generale Claai e dell’unione artigiani della provincia di Milano. «Certamente la partenza di una start up è particolarmente un percorso a ostacoli in Italia: per le difficoltà burocratiche, che frenano sul nascere le imprese, e per la difficoltà di accesso al credito. Le banche hanno perso la loro vocazione di scommettere su progetti imprenditoriali» spiega Accornero «e quindi le start up, all’inizio, non avendo accesso al credito devono farcela con le loro forze, con i risparmi familiari».
C’è poi un altro problema, non di poco conto, che mette in difficoltà le start up ed è, secondo il segretario generale, il fenomeno dell’autoimprenditorialità, quando cioè a causa del mercato saturo si decide di inventarsi un’attività magari sulla base di competenze precedentemente acquisite. Fare tutto questo, però, senza aver prima costruito un adeguato progetto imprenditoriale, causa la vita breve delle imprese.
«Per questo come associazione di categoria, come Claai e unione artigiani, abbiamo promosso un servizio di tutoraggio degli aspiranti imprenditori, per aiutarli a costruire i loro progetti, il loro business plan in maniera professionale, in modo da ridurre i rischi» dice alla Repubblica degli Stagisti il segretario generale Claai, che aggiunge «perché chiudere una start up è un fallimento umano ed economico oltre a una perdita di tempo e risorse. Per questo motivo il consiglio è di non gettarsi subito nell’avvio della nuova attività, ma di costruirla avendo chiare tutte le misure da adottare».
Anche perché a mettere il bastone tra le ruote ci pensano già le tante “carte” richieste alle nuove imprese. «Appena apre, l’azienda già comincia a generare costi. Ad esempio ci sono licenze da pagare di vario tipo, sia commerciale sia produttivo. E poi c’è il negozio o l’ufficio da pagare, le spese di consulenza. Se la burocrazia non è quindi veloce nel rilasciare le licenze e autorizzazioni, allora l’attività comincerà a produrre costi senza ottenere ricavi. Quindi più è lenta la burocrazia, più la start up parte con un fardello di spese alle spalle che sono assimilabili a un debito».
Motivo per cui Accornero, senza giri di parole è deciso nel dire che «una delle cause della morte delle start up è proprio la burocrazia». Che non coinvolge solo la nascita dell’azienda, ma finisce per compromettere anche i bandi per giovani imprenditori o start up che dovrebbero teoricamente aiutare lo sviluppo di queste attività.
«A causa della crisi della finanza pubblica questi bandi sono sempre di meno. E poi soffrono di un eccesso di burocrazia che nasce, certo, sotto le buone intenzioni di non sprecare soldi pubblici, ma questo eccesso di zelo spesso produce il risultato opposto: chi ha una buona idea imprenditoriale non riesce a mettere insieme questi documenti complicatissimi. O è obbligato a rivolgersi a un professionista che curerà la documentazione con il rischio di pagarlo senza sapere se riceverà il contributo».
A questo punto l’unica soluzione sarebbe quella di chiedere aiuto a una banca per poter far fronte ai pagamenti, ma in questo caso l’azienda «Viene vista malissimo» dice Accornero. «Le banche hanno perso lo spirito di valutare il progetto e rischiare insieme all’imprenditore. Certo la crisi finanziaria che abbiamo vissuto e le stringenti regole di Basilea 2 e Basilea 3 impongono di valutare i parametri, non è sufficiente la sola idea imprenditoriale per avere i finanziamenti. Serve anche sapere cosa metti sul piatto, se hai delle garanzie familiari, qualcuno che possa garantire per te, o se hai una casa di proprietà su cui mettere un’ipoteca».
E qui arriva il confronto desolante con gli Stati Uniti: «Lì si ragiona in maniera diversa. Si dà per scontato che un po’ di start up falliranno, ma quella che avrà successo, senza necessariamente fare il caso di Apple o Google, poi ripagherà tutte le altre imprese che sono nel frattempo fallite. Hanno più voglia di scommettere sulle belle idee che possono avere successo. Da noi si fa solo un calcolo matematico: quante risorse ci metti tu, quante la tua famiglia, che garanzie porti».
Negli ultimi anni qualche piccolo aiuto nei confronti delle start up è arrivato, basti pensare alla forma giuridica delle srl semplificate introdotta nel 2012, ma di strada secondo il segretario generale Claai ce n’è ancora molta da fare. «Occorrerebbe innanzitutto un’esenzione da più normative burocratiche possibile nei primi anni di vita. Ma uno snellimento effettivo, non di facciata come spesso è avvenuto. E poi occorre creare, come è stato fatto nei paesi anglosassoni, dei fondi di private equity, che investano nel facilitare la nascita delle start up e creare una normativa perché si possa investire anche in piccole realtà. Cosa che non avviene» spiega Accornero, «perché i fondi di private equity che noi conosciamo fanno investimenti sui milioni di euro. Mentre noi parliamo di micro attività che necessitano di micro investimenti: 50, 100, 200mila euro. Quindi serve uno strumento finanziario di queste dimensioni».
Perché alla fine è proprio questo accesso al credito ad essere una delle difficoltà più grandi per le start up, come certifica anche una recente indagine Unioncamere che mostra come già all’avvio il 35% di queste imprese deve scontrarsi contro la mancanza di capitale necessario, percentuale simile anche per quante hanno difficoltà di ottenere credito dalle banche. «Un’impresa quando comincia ha spese di consulenza, di avvio, per l’ufficio, mentre i ricavi si cominciano a generare sei mesi, un anno dopo. Quindi all’inizio l’azienda genera solo costi» spiega Accornero «e serve un’attività finanziaria propria o data dalle banche per sostenerli».
Ma poiché è difficile convincere gli istituti di credito ad aiutare le start up ecco che arriva la proposta del segretario Claai: «Si potrebbero stanziare dei fondi per fare in modo che lo Stato garantisca il 100% del finanziamento che la banca concede all’impresa con determinate caratteristiche: ad esempio un bussiness plan ben fatto o il patronage di qualche ente. La banca in questo modo non rischia quasi nulla se non le spese di istruttoria e della pratica e visto che rischia lo Stato, per lei sarebbe più semplice concedere il finanziamento. Certo sono soldi pubblici» osserva giustamente Accornero «ma se partiamo dalla logica di favorire i progetti ben fatti e le buone idee alla fine tutto questo torna alla collettività, anche in termini di tasse e contributi versati».
Perché se a qualcuno può sembrare strano che nasca una società come Google anche da noi, il ragionamento che dovrebbe spingere le banche a investire di più nei progetti ben fatti è che basta un’impresa importante che si realizza e «che nel giro di qualche anno arriva a 100 dipendenti per ripagare dieci imprese a cui il finanziamento è andato male». Un ragionamento che si spera venga quanto prima abbracciato da chi di dovere, insieme a una rapidità d’azione, per nulla italiana, in modo da convincere chi fa start up nel nostro Paese a non rinunciarci, a non farla all’estero e soprattutto a portare a termine, con successo, i propri progetti.
Marianna Lepore
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