Cassieri e banconisti, stage al posto di contratti: ancora abusi nella grande distribuzione

Ilaria Mariotti

Ilaria Mariotti

Scritto il 30 Mar 2016 in Approfondimenti

commercio e distribuzione stage come commessi stage nei supermercati

Un periodo di formazione in azienda affiancato da un tutor che insegna un mestiere: questo in teoria dovrebbe essere lo stage. Nella pratica però... non sempre. È vero che le recenti riforme al mercato del lavoro abbiano messo un freno: «Dopo le regolamentazioni introdotte dal governo Monti e con le leggi regionali, abbiamo notato un arresto nel ricorso spropositato allo strumento» spiega alla Repubblica degli Stagisti Luca De Zolt di Filcams, rete della Cgil per il terziario, il turismo e i servizi. Ma se ne continua a abusare. Spesso nella grande distribuzione, servendosi di tirocinanti al posto di lavoratori contrattualizzati.

Il comparto può contare in Italia su circa 60mila esercizi e 450mila dipendenti, secondo gli ultimi dati di Federdistribuzione, e ha ospitato nel solo 2014 oltre 41mila stagisti: praticamente quasi uno stagista su otto, tra coloro che hanno svolto un tirocinio in una impresa privata in quell'anno, lo ha fatto in un esercizio commerciale. Per la precisione, nel commercio all'ingrosso sono stati impiegati nel 2014 14.440 stagisti, mentre nel commercio al dettaglio ne sono stati impiegati poco meno di 27mila. Totale appunto 41mila: ma solo 5mila di questi giovani sono stati poi contrattualizzati (i dati sono tratti dall'indagine
Excelsior di Unioncamere).

A documentare la situazione vi sono diverse recenti testimonianze sul forum di questo giornale. «Vengo contattata dal titolare di un'azienda di un supermercato e mi viene proposto un tirocinio come cassiera: io accetto, sono disposta a imparare» scrive Tilly. Nonostante, va ammesso, di formazione per un lavoro da cassiera non si avverta grande necessità, al di là di qualche giorno per apprendere le mansioni base. E invece: «Un supermercato mi ha proposto di fare uno stage di sei mesi con un rimborso di 400 euro. Dico di sì in attesa di meglio e anche per apprendere un mestiere» confessa Niki, che aggiunge: «Lavoro sette ore al giorno per sei giorni con domenica di riposo», vale a dire 42 ore a settimana.

Le varie normative in materia (a partire dalle Linee guida concordate in sede di Conferenza Stato - Regioni nel gennaio 2013) non pongono un limite preciso al numero di ore da trascorrere nell'azienda ospitante, ma in onore al buon senso non si dovrebbero superare le 38-40 ore settimanali standard. Niki al contrario è in buona compagnia. Anche un altro lettore, impegnato in uno stage annuale in un supermercato, si lamenta dei «turni massacranti»: «Qualche volta sono arrivato a nove ore di fila, sempre con 15 minuti di pausa. Comincio a lavorare la domenica con turni spezzati. Ad agosto cinque giorni di vacanza».
E ancora: «Almeno un giorno alla settimana, fino a un massimo di tre, devo lavorare fino alle 22, o dalle 6 di mattina)». Come Cristian, che «ha le chiavi del supermercato per aprire la mattina alle quattro», per 400 euro mensili.

E la formazione? Molte volte i tutor latitano. A riprova del fatto che lo stagista di fatto sostituisce un lavoratore, basti pensare che spesso tiene aperta una cassa e svolge in autonomia lo stesso lavoro degli altri cassieri contrattualizzati. Tilly ripercorre il suo primo giorno: «Lunedì comincio e una delle dipendenti mi piazza alla cassa facendomi vedere come funziona. Impossibile memorizzare nell'arco di nemmeno un'ora. Resta lì un po', poi se ne va dicendomi se ho bisogno di chiamarla. Arriva gente e io vado nel panico». Lo stesso per Niki («Sono in cassa da sola e ho visto i presunti tutor affiancarmi solo il primo giorno. Mi rivolgo in caso di necessità agli altri ragazzi») e Cristian («Vengo schiaffato continuamente in cassa principale»).

Se secondo i sindacati di settore «nella grande distribuzione organizzata l'utilizzo dello stage rimane limitato» chiarisce De Zolt, è pur vero che «nelle aziende più piccole è difficile entrare in possesso di dati e i lavoratori sono più deboli». Gli abusi continuano perciò «nel turismo e nei piccoli esercizi commerciali, dove lo stage vale come sostituzione del lavoro dipendente con costi ridotti». Il rischio non è nei grandi gruppi, «anche perché le aziende hanno adesso altre forme contrattuali a basso costo e con scarsi vincoli, come i vouchers, che nel terziario sono ormai un'emergenza», ma nelle piccole realtà come quella di Tilly: «In tutto siamo due stagisti su poco più di una decina di dipendenti (scaffalisti e cassieri)». Quelle dove i controlli sono più complicati, terreno fertile per gli abusi.

La conferma arriva dalla Filcams di Torino: «Siamo certi dei dati sull'organico per le aziende in cui siamo presenti con iscritti e delegati e per cui possiamo rivendicare il diritto di informazione almeno annuale, oltre al controllo interno che solo i lavoratori possono fornire» rammenta Isabella Liguori. «L'unico obbligo per legge» continua «riguarda il personale in somministrazione: annualmente le aziende devono dare alle organizzazioni sindacali il consuntivo dei contratti di somministrazione attivati l'anno precedente, ma non esiste un simile atto dovuto per altre tipologie contrattuali». Né tantomeno per gli stage, che possono così continuare a svolgersi in un sottobosco pressoché fuori controllo. «Per un'organizzazione sindacale non è facile venire in contatto con i giovani che entrano nei luoghi di lavoro attraverso uno stage» ragiona De Zolt. «Lo stagista vive la sua condizione in modo transitorio, spesso sotto il ricatto/speranza di una possibile trasformazione dello stage in lavoro dipendente. Per questi motivi i casi di segnalazione diretta al sindacato sono molto limitati».

Da parte loro le associazioni di categoria si schierano contro gli abusi. «Siamo contrari a questo tipo di stage sbagliati» dice alla Repubblica degli Stagisti Donatella Prampolini, presidente della Fida, la federazione dei venditori al dettaglio. «Crediamo molto nel lavoro e tendiamo a costruire rapporti 'familiari' all'interno delle nostre aziende, per cui se investiamo su una persona è per formarla e farla diventare un punto di riferimento per la clientela» assicura. La formula migliore per farlo «sono i tre anni di apprendistato», non lo stage. Le fa eco la la direzione della Confcommercio di Milano: «I nostri associati sono stati sensibilizzati sulle reali finalità del tirocinio attraverso incontri, seminari e una guida disponibile online. Esistono altri strumenti per trasferire competenze idonee a svolgere una mansione, come l'apprendistato». E se le assunzioni post tirocinio del comparto sono così scarse è «per la crisi che ci ha colpito. Se ci si trova di fronte alla necessità di una scelta, si toccano prima i nuovi entrati, non i contratti a tempo indeterminato» spiega Prampolini.

Ma anche se i rappresentanti dei piccoli e grandi esercizi commerciali hanno questa posizione, e la predicano ai propri associati, basta un giro sul web per trovare proposte al limite della legalità. Perfino sul sito di Garanzia Giovani, quello preposto – almeno nelle intenzioni
a trovare buone offerte occupazionali per i giovani. È di qualche settimana fa un annuncio per «un ragazzo che abbia voglia di fare un tirocinio formativo di sei mesi, anche senza alcuna esperienza, come commesso di banco». Per ClicLavoro, sito ufficiale del ministero del Lavoro, la giustificazione è che «le opportunità di tirocinio sono inserite direttamente dalle aziende o dagli operatori accreditati, che gestiscono in autonomia il processo di selezione». Mentre il controllo qualità dello stage «è affidato al soggetto promotore e la conformità rispetto alle disposizioni nazionali e regionali è monitorata da appositi organi».

La lista degli stage per ruoli di basso profilo è purtroppo ben lunga. Subito dopo i cassieri e i banconisti, vengono i commessi dell'abbigliamento. «Nelle aziende del Gruppo Inditex come Zara, Massimo Dutti, Bershka, ci risulta un uso ancora diffuso degli stage anche per mansioni ripetitive e a scarso contenuto formativo» denuncia De Zolt. Lo ribadiscono anche le storie che i lettori postano nel forum del giornale. Tra le più recenti: «Mi chiamo Flavia, ho 25 anni e sto finendo finalmente uno stage di cinque mesi presso un negozio d'abbigliamento»; «Sto svolgendo uno stage presso un negozio in cui devo fare 40 ore con la domenica come giorno di riposo settimanale». E ancora: «Da una settimana lavoro come tirocinante presso un negozio di grandi elettrodomestici, faccio tutto ciò che fa un commesso normale con il rimborso misero di 500 euro».

Basterebbe prevedere, per questo tipo di mansioni, una durata massima molto ridotta, magari 8 o 10 settimane, differenziando dunque gli stage in base al ruolo professionale da apprendere. E dunque la domanda è: perché nessuno prova a battere questa strada?

Ilaria Mariotti 

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