La deputata Alessia Mosca: «Lo smart working è conveniente per tutti»

Eleonora Voltolina

Eleonora Voltolina

Scritto il 19 Feb 2014 in Interviste

smart working

Una delle principali sostenitrici del lavoro "smart", svolto cioè da luoghi diversi rispetto all'ufficio, è la deputata Alessia Mosca. Trentotto anni, lombarda, alla sua seconda legislatura alla Camera, ha presentato insieme a due colleghe (Irene Tinagli di Scelta Civica e Barbara Saltamartini del Nuovo Centro Destra) un progetto di legge "tripartisan" proprio per semplificare la già esistente legge sul telelavoro, oggi molto sottoutilizzato. Perché in Italia, purtroppo, si continua a considerare valido solo l'indicatore della presenza fisica alla scrivania, il "sedere di pietra" sulla sedia, e la maggior parte dei capi ancora considera positivo vedere che i dipendenti arrivano presto e vanno via tardi - come se dal numero di ore e di minuti di presenza in ufficio dipendesse effettivamente la produttività. La filosofia dello smart working va in direzione ostinatamente contraria, mettendo al centro gli obiettivi e provando a costruire un patto di fiducia tra azienda e dipendente, in cui non importa più quanto tempo lavori, o da dove lo fai, bensì quali risultati porti.

Onorevole Mosca, la "Giornata del lavoro agile" sperimentata dal Comune di Milano ha coinvolto quasi 6mila lavoratori e quasi 100 fra aziende, cooperative e studi professionali. E' in linea con quanto vi aspettavate? Lo si può considerare un successo?
alessia mosca lavoro agileDirei proprio di sì. C'è stata una mobilitazione molto elevata e soprattutto c'è stata una differenziazione di tipologie di lavoratori: questo conferma il fatto che non stiamo parlando di una questione che tocca solo determinati settori o certe tipologie di lavoratori. In realtà il 40% dei lavori possano essere esercitati con questa modalità.

Quindi lo smart working non ha dei settori privilegiati per l'applicazione?

No, dagli studi su cui noi ci stiamo basando emerge appunto che circa il 40% dei lavori possono essere fatti in smart working. E una percentuale ancora più alta, se non in modo totale, può essere svolta almeno in parte in questo modo: alcuni passaggi della mansione che viene esercitata possono essere fatti da remoto. Il che porta la percentuale a diventare ancora più alta del 40%.

E questi lavori quali sono?

C'è veramente di tutto. Perfino i mestieri che hanno bisogno della presenza e del contatto diretto poi hanno comunque quasi sempre una parte di lavoro che è gestionale, di archiviazione, di espletamento di pratiche burocratiche. Tutta questa parte può essere fatta in modalità smart. Quindi anche il lavoro che sembra più lontano dal poter essere esercitato in smart working in realtà prevede che ci possano essere come dicevo alcune mansioni che possono essere svolte così. Per non parlare poi di tutti quei lavori di backoffice, tutte quelle innumerevoli attività amministrative che possono essere fatte all'interno delle imprese senza dover per forza essere fisicamente presenti.

Quali sono gli aspetti positivi più importanti del "lavoro agile"?

Ce ne sono tanti. L'idea nasce da un'esigenza principale: quella della conciliazione, intesa come una maggiore possibilità di far coesistere gli impegni lavorativi con quelli familiari, che si traduce nella necessità di una maggiore flessibilità dell'organizzazione del lavoro. Partendo dal punto della conciliazione però il tema si allarga all'organizzazione del lavoro, alla cultura manageriale e alla cultura organizzativa interna alle aziende e agli studi professionali. Il concetto di lavoro a distanza cambia il rapporto tra imprenditori, dipendenti e manager perché si crea una relazione basata sulla fiducia reciproca e sulla responsabilità, che migliora tra l'altro la produttività. Qui si apre un altro grandissimo tema, quello di come si fa a migliorare le performance, imparando a valutarle in modo diverso rispetto al mero conteggio della presenza fisica sui luoghi di lavoro. Si passa da una valutazione basata sul numero di ore passate seduti alla scrivania a una valutazione dei risultati. Ci sono poi degli aspetti indiretti che però sono altrettanto importanti: una riduzione dei costi aziendali, perché utilizzando lo smart working si ha bisogno di spazi diversi, più piccoli. C'è poi un forte impatto sugli spostamenti, cioè sulla mobilità all'interno delle città. E in più c'è un effetto indiretto che ha un impatto sulle politiche industriali. Una diffusione di questa modalità di lavoro genererebbe anche un impatto molto forte su quelle aziende che producono tecnologia, servizi innovativi, e che quindi sono fornitori degli strumenti che servono per lavorare in questa modalità. E sappiamo che in Italia abbiamo grandi aziende che producono questo, sulle quali si sta puntando, anche in attuazione dell'agenda digitale europea, e che potrebbero beneficiare molto di questo cambio organizzativo. Penso alle aziende che producono software per il lavoro da remoto, sviluppando non solo apparati ma anche applicazioni e programmi che servono a questo scopo. Infine, se si sviluppa questa modalità, nascerà anche un'esigenza dal basso che spingerà perché vengano fatti gli investimenti ulteriori rispetto alle infrastrutture in banda larga. Lo smart working attiva insomma un meccanismo virtuoso che può veramente avere un impatto molto forte.

La conciliazione è un tema molto femminile. Realisticamente lei pensa che il "lavoro agile" sia un tema che riguarda entrambi i generi a parimerito, o si tratta di una iniziativa sopratutto per donne?

Qui non c'è solo la mia convinzione, ma anche fatti concreti. Noi questa proposta di legge l'abbiamo portata avanti facendo una ampia consultazione, abbiamo sentito anche le aziende private anche pubbliche che applicano già forme di smart working. E abbiamo visto che questa modalità è già nei fatti applicata indistintamente a uomini e donne. Ci sono esempi molto virtuosi di aziende che hanno introdotto questa modalità da qualche anno e dunque possono già presentare dei primi risultati: la soddisfazione del lavoratore o della lavoratrice è massima, a prescindere dal genere.

Rispetto appunto alla proposta di legge che con Irene Tinagli e Barbara Saltamartini avete depositato in Parlamento, che tempi si prospettano per l'approvazione?

Innanzitutto io sono convinta che uno degli effetti delle leggi debba essere sempre quello di alzare il livello di dibattito su una determinata questione, e fare in modo che il tema venga posto al centro dell'agenda. Questo effetto lo stiamo già ottenendo: tutta la fase di consultazione, la giornata del lavoro agile di Milano, le iniziative che si stanno moltiplicando per parlare di questo tema sono anche un effetto della proposta di legge. Dimostrano che abbiamo toccato un tema che stava muovendosi un po' sottotraccia e che grazie alla legge è potuto diventare "degno" di un dibattito aperto e diffuso. Credo che questo possa già considerarsi un risultato. Per quanto riguarda la traduzione della proposta in legge effettiva, questo dipende ovviamente da tanti fattori che non sono alla nostra portata, e sopratutto da che tipo di andamento avrà questa legislatura. Dato che si tratta di una proposta tri-partisan che gode di un ampio sostegno trasversale, la nostra idea era quella di tentare di agganciarla a un veicolo governativo in modo da farla approvare più rapidamente rispetto a un percorso parlamentare normale, che ha tempi un po' più lunghi. Vedremo.

Entrando in alcuni aspetti tecnici della proposta di legge, perché avete previsto che il telelavoro non possa occupare più del 50% dell’orario di lavoro tradizionale?

La proposta dice che ci deve essere un accordo tra le parti, dunque tra dipendente e datore di lavoro, su quanto tempo del lavoro può essere esercitato da remoto, in base alle mansioni; perché sappiamo che alcune possono essere svolte di più in questa modalità, altre di meno. Questo rientra negli accordi individuali. Il fatto che sia però stato posto un limite, in modo che non diventi un lavoro da remoto sempre, deriva dal fatto che uno degli aspetti peggiorativi del telelavoro tradizionalmente inteso era la conseguenza della segregazione rispetto a una condivisione di opinioni e rispetto a un nucleo collettivo che comunque è una parte importante del lavoro anche per la carriera, la creatività che può scaturire dallo scambio con i colleghi. La modalità che noi proponiamo nella proposta di legge dunque elimina questo inconveniente del lavoro sempre da remoto, che in effetti può portare con sé aspetti più negativi che positivi.

L'obiezione degli uffici Hr in caso la legge dovesse andare in porto sarà sicuramente: troppa burocrazia. Come semplificare le procedure?

No no, al contrario, questa normativa semplifica: va proprio nella direzione di semplificare un dispositivo oggi troppo pesante, che è stata una delle ragioni per cui in Italia non è mai decollata questa modalità di lavoro.

Quindi i direttori risorse umane possono stare tranquilli?

Certo. Il nostro obiettivo è quello di rendere più semplice, fare in modo che le aziende non debbano più impazzire per poter allargare a tutti i propri dipendenti questa modalità di lavoro.

In caso andasse in porto, questa legge avrebbe bisogno per essere pienamente operativa anche di un passaggio per la contrattazione nazionale con i sindacati?

Per come l'abbiamo pensata, no. Proprio per la tipologia di mansioni che possono accedere a questa modalità, che sono molto diverse le une dalle altre, abbiamo pensato che la legge possa decollare solo se rientra in una modalità di accordo individuale, che quindi riguardi il singolo dipendente e il datore di lavoro. La normativa quadro sul telelavoro - che viene ripresa anche se semplificata in questa normativa - resta, non cancelliamo quello che è esistente: ma lasciamo la flessibilità e la possibilità di accordo tra le parti, singolarmente, per venire incontro alle esigenze specifiche e per fare in modo che questa modalità di lavoro sia produttiva. 

Realisticamente, quale percentuale di lavoratori di un'azienda può essere smart e quale invece deve rimanere stanziale?

Anche il 100%! Ci sono certi settori in cui anche a tutti i dipendenti si può applicare la tipologia dello smart-working, anche perché vuol dire che il 100% dei lavoratori può lavorare un paio d'ore da casa, o in uno spazio di coworking, e poi arrivare a mezzogiorno per fare la riunione con tutti gli altri colleghi. In modo alternato e flessibile cioè ci sarà chi lavora dal suo posto di lavoro e chi da qualche altra parte.

Lei ha deciso di candidarsi alle imminenti elezioni europee. Com'è la situazione a livello europeo? Ci sono paesi con legislazioni interessanti e già operative su questo tema?

Sì, noi arriviamo sempre tardi purtroppo. Infatti non è un caso che il discorso della conciliazione in Italia sia quello su cui arranchiamo di più. Innanzitutto c'è un tema strutturale: l'Italia è l'ultimo Paese in Europa per l'attuazione dell'agenda digitale, e questo significa che, banalmente, siamo molto in ritardo sull'accesso alle tecnologie. Questo ha frenato molto la possibilità di utilizzare le innovazioni tecnologiche anche per migliorare l'organizzazione del lavoro. Poi il nostro sistema non ha mai ben accolto il telelavoro, c'era una normativa molto più soffocante e molto più piena di vincoli e oneri dal punto di vista burocratico rispetto a quella di quei Paesi europei dove il telelavoro si è sviluppato di più. Terzo, in Italia abbiamo approfondito poco concetto di flessibilità del lavoro intesa nel senso di flessibilità del luogo. Ci siamo spesso accapigliati su battaglie sulla flessibilità in ingresso e in uscita dal posto di lavoro, invece di concentrarci sulla flessibilità organizzativa e sulla produttività.

Intervista di Eleonora Voltolina

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