Eleonora Voltolina
Scritto il 06 Mar 2014 in Articolo 36
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Perché il salario minimo è una assoluta priorità? Perché Renzi dovrebbe fare il possibile e l'impossibile per farlo inserire nel JobsAct che presenterà la settimana prossima, anche se prevedibilmente ci sarà da parte dell'Ncd un vero e proprio scudo?
Perché in Italia il problema numero uno è il mercato del lavoro. All'interno del problema del mercato del lavoro, il problema numero uno sono i precari. E all'interno del problema dei precari, il problema numero uno sono le retribuzioni che, specialmente quando si tratta di rapporti di lavoro "parasubordinati", sono da fame.
La situazione è sotto gli occhi di tutti: anzi, molti di noi che ne scriviamo e molti di voi che leggete vivono questa condizione sulla propria pelle. Non riuscire a mantenersi con il proprio stipendio, essere "working poors" cioè farsi un mazzo tanto dalla mattina alla sera e riuscire a racimolare solo poche centinaia di euro a fine mese, scontrarsi con un mercato domanda/offerta squilibrato in cui i datori di lavoro impongono retribuzioni da fame nella modalità prendere o lasciare, "tanto fuori ho la fila di gente che questo lavoro lo fa anche gratis". E questa situazione non riguarda solamente i mestieri ambiti, blasonati, quelli glamour che tanti giovani sognano e per i quali studiano: ormai si è estesa perfino ai mestieri più umili, per cui si arriva ai limiti estremi di persone che accettano di fare (l'abbiamo documentato sulla Repubblica degli Stagisti solo poche settimane fa) uno stage a 400 euro al mese come colf in una villa privata.
Un mercato del lavoro completamente squilibrato, che vede nelle retribuzioni il tallone d'Achille più macroscopico e socialmente pericoloso: decine di migliaia di giovani costretti a restare giovani fino a trent'anni, fino a quaranta, addirittura oltre. Che lavorano ma non guadagnano abbastanza da andare a vivere da soli, che non sono in grado di affittarsi o comprarsi una casa, che devono contare sull'aiuto dei genitori per questa e qualsiasi altra spesa, che non possono recidere il cordone ombelicale ormai insano e non riescono a diventare pienamente adulti, anche dal fondamentale punto di vista dell'indipendenza economica. Persone ingabbiate nella condizione perpetua di giovani, persone che invecchiano senza riuscire a diventare adulte.
Come siamo potuti arrivare a questo punto? Come può l'Italia vantare un posto nel G8, tra i Paesi più avanzati, e contemporaneamente avere un mercato del lavoro da terzo mondo? La situazione ha radici profonde, ramificate, complesse da districare. C'è un debito pubblico assurdo, una legislazione sul lavoro bizantina, un mercato del lavoro duale che avvantaggia gli insiders con contratto di tipologia subordinata e vessa gli outsiders cosiddetti "autonomi" o "parasubordinati", e ancora c'è un sistema fiscale oppressivo, un cuneo fiscale mostruoso, una mobilità occupazionale risibile, un sistema di servizi all'impiego scarso a livello quantitativo e qualitativo e completamente inefficiente, e l'elenco potrebbe continuare.
Morale della favola: i datori di lavoro - pubblici e privati - si rivalgono sugli ultimi. Li contrattualizzano malamente, come precari, spesso come collaboratori finti autonomi (richiedendo però prestazioni da lavoratore dipendente, come presenza in ufficio, rispetto di orari e di gerarchie etc), e sopratutto gli danno salari da fame.
Su questo punto incide il salario minimo. Una legge a costo zero per lo Stato, che dice semplicemente: per qualsiasi tipologia di lavoro, con qualsiasi tipologia contrattuale, se tu vuoi che una persona lavori per te non puoi pagarla meno di tot.
Ieri nel programma tv "Ottoemezzo" su La7 la rubrica "Il punto di Paolo Pagliaro" ha ripreso il tema partendo proprio dalla mia proposta, ricordando che il salario minimo non sarebbe una bizzarria italiana. Questo istituto esiste nella maggior parte dei Paesi europei: recentemente perfino la Germania, che per decenni aveva ostinatamente evitato di ricorrere a questa misura, ha stabilito che a partire dal 2015 anche in tutti i land tedeschi entrerà in vigore un salario minimo, che sarà pari a 8,50 euro all'ora. Il messaggio è importantissimo e deve arrivare forte e chiaro al governo: senza salario minimo non ci può essere equità retributiva. Uno stipendio dignitoso non è un optional.
Ma attenzione. L'Italia ha anche un altro problema nel suo mercato del lavoro, cui accennavo poco sopra: l'incredibile numero di persone sottoinquadrate, assunte con contratti di lavoro "atipici" per poter risparmiare sui contributi e sulle retribuzioni. Perché se i contratti di lavoro subordinati ancorano le buste paga ai contratti nazionali di lavoro, per i contratti "parasubordinati" quest'ancora non esiste e dunque si naviga in mare aperto, in balia delle onde.
Qui sta peraltro il motivo del ritardo italiano sul salario minimo: il nostro mercato del lavoro infatti è stato regolato per decenni dalla contrattazione collettiva, perché solo con contratti dipendenti si poteva assumere; i contratti atipici - e con loro la contrattazione individuale che avviene tra chi propone il lavoro e chi lo accetta - esistono solo da una ventina d'anni.
Ecco dunque perché una legge sul salario minimo in Italia non c'è stata fino ad ora: perché il ruolo veniva svolto dai sindacati attraverso la contrattazione di categoria. Ma questo ruolo ormai non copre più tutte le posizioni lavorative, e ha bisogno di un sostegno. Ecco anche perché una legge sul salario minimo in Italia non avrebbe quasi alcun senso se non riuscisse a comprendere quella grandissima parte di "cornuti e mazziati" che oggi portano a casa stipendi da fame. Cioè i lavoratori non subordinati.
Insomma, se arrivassimo come la Germania a dire "nessun lavoro d'ora in poi può essere pagato meno di 8,5 euro all'ora", dovremmo trovare un modo granitico perché ciò valga anche per gli autonomi, almeno per i cocopro e i cococo. Come? Il dibattito è aperto. Questi contratti potrebbero per esempio dover riportare per iscritto l'indicazione del tempo che il collaboratore prevede di dedicare alla collaborazione in questione. Quanto? Il 25% del proprio tempo? Dunque indicativamente 10 ore a settimana, 40 ore al mese. Il 50%? Allora 20 ore a settimana, 80 al mese. E così via.
Certo, si sa che in Italia fatta la legge trovato l'inganno. Si può immaginare che una misura del genere farebbe fiorire immediatamente un numero incredibile di contratti a progetto o di collaborazioni coordinate e continuative che formalmente indicherebbero un part-time, magari al 50%, ma che nella realtà dei fatti impegnerebbero i collaboratori full time o anche di più. È l'annoso problema tutto italiano della refrattarietà alle regole, del gatto e la volpe, del tentativo di essere sempre più furbi dello Stato, di fregare il prossimo, di fare qualsiasi cosa a proprio esclusivo vantaggio.
È un problema profondamente culturale, che va affrontato: ma che non può bloccare l'iter di leggi giuste, con il disincanto di chi dice "tanto poi troverebbero il modo per aggirarla". Intanto facciamola: poi si vedrà come scovare e punire chi cerca di eluderla. E si lavorerà anche sull'empowerment dei precari, perché ciascuno in prima persona tiri fuori la dignità e rifiuti di essere sottopagato. Una legge sul salario minimo sarebbe una formidabile arma nelle mani di tutti gli sfruttati.
Altro aspetto, la possibilità di non fare un salario minimo uguale per tutta Italia. La mia idea qui, ripresa nel servizio di Pagliaro di ieri sera, è quella di un salario minimo "territorialmente caratterizzato", composto da due fattori: uno fisso, che rappresenti una percentuale dell’importo, e uno variabile per la restante parte, da calcolare regione per regione attraverso un algoritmo che dipenda dal costo della vita combinato con il tasso di occupazione di quel dato territorio. Più alto è il primo, più il salario sale; più basso è il secondo, più il salario scende. La combinazione dei due permetterebbe a mio avviso una equità e "saggezza" retributiva, capace di valorizzare il lavoro senza deprimere il mercato. Entrambi i fattori andrebbero ovviamente aggiornati annualmente, adeguando il primo all’inflazione e il secondo ai nuovi valori rilevati dall’Istat. In questo modo, per esempio, si potrebbe avere un salario minimo di 1300 euro al mese a Milano (8 euro all’ora), di 1100 euro a Padova (6,9 all’ora), di mille euro a Trapani (6,25 all’ora), salari agganciati alle reali necessità dei singoli territori.
Questo aspetto della proposta solitamente fa saltare sulla sedia chi ha i capelli bianchi. L'obiezione è sempre la stessa: ma come, vuoi tornare alle gabbie salariali, abbiamo fatto tante battaglie per abolirle. Ora, le gabbie salariali hanno funzionato in Italia dal 1945 al 1969. Sono passati quasi cinquant'anni: penso che sia un tempo sufficiente per superare l'emotività e poter riprendere laicamente il discorso. Nella mia proposta io mi limito a delineare un modo per non ignorare le differenze e le diverse esigenze dei territori.
Il salario minimo per sua stessa natura non deve essere troppo alto, per non rischiare di deprimere il mercato del lavoro e di produrre un effetto opposto a quello desiderato (diminuzione dei posti di lavoro e aumento del lavoro nero). Il fatto che il limite minimo debba necessariamente essere basso però rischia in Italia di creare una situazione insostenibile per le regioni economicamente più arretrate, nel caso venisse modellato e parametrato a quelle più “forti”, oppure una situazione pessima per i lavoratori di queste regioni “forti” in caso la cifra venisse modellata e parametrato al ribasso, sui dati delle regioni più deboli. Una soluzione è dunque quella di differenziare per ritagliare su ogni territorio un provvedimento ad hoc, che rispecchi l'esigenza e le necessità degli imprenditori che creano posti di lavoro e dei lavoratori che hanno diritto a ricevere retribuzioni dignitose.
Ma non sono "innamorata" di questo aspetto, sono ben aperta a qualsiasi altra formulazione che riuscisse a ottenere un risultato equo, riuscendo a introdurre questa misura di tutela della dignità delle retribuzioni (un diritto costituzionalmente garantito, con l'articolo 36 della nostra Costituzione) senza deprimere ulteriormente il mercato del lavoro, effetto collaterale che non ci possiamo assolutamente permettere.
Ultimo aspetto, le prestazioni "genuinamente autonome". Le "vere partite Iva" insomma, le persone che davvero svolgono la propria professione in maniera autonoma, come freelance si dice in alcuni settori, comunque fornendo prestazioni lavorative singole e fatturandole ai propri clienti.
Qui la soluzione per garantire anche a loro una retribuzione minima è ancora più spinosa, perché la quantificazione del valore dipende ovviamente dal pregio della prestazione, dalla numerosità o rarità delle persone in grado di fornirla, dalla complessità e dal tempo mediamente necessario per eseguirla. Le obiezioni provengono anche dall'interno, perché i professionisti più pagati temono che l'introduzione di una cifra minima indicativa, calcolata forfettariamente sull'intera prestazione, possa indurre i datori di lavoro ad abbassare i loro compensi che sono ben più alti: questa problematica è emersa per esempio recentemente in tutta la sua durezza rispetto all'applicazione della legge sull'equo compenso giornalistico, dove il problema sono ovviamente i freelance pagati 5 euro a pezzo, ma nella determinazione del simil-tariffario che dovrebbe stabilire la cifra minima obbligatoria che ogni testata sarà tenuta a pagare per un articolo giornalistico o un servizio radiotv vi è anche un piccolo ma combattivo nucleo che vorrebbe che fossero fissate tariffe altissime, fuori mercato (magari 100 euro a pezzo, o addirittura oltre), pur di non pregiudicare i compensi abituali dei fortunati non sfruttati.
Insomma, il tema di quanto vale il lavoro è più che mai complesso. Ma va affrontato: è questa secondo me la vera sfida politica del governo Renzi. Per far ripartire il Paese bisogna ripartire dal lavoro dignitosamente retribuito.
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