C'è differenza tra essere raccontati e raccontarsi. Quella dei giovani italiani di oggi è una generazione che si racconta poco: per fiacca, per sfiducia, forse per disgusto, o perché c'è chi - qualche vecchio - lo fa al posto suo. Magari con competenza, se va bene, ma senza vera cognizione di causa.
Benedetta Cosmi, classe 1983, reclama il diritto al suo racconto - tumultuoso, propositivo e sostanzialmente elogiativo della sua generazione - con «Non siamo figli controfigure. Docenti beat, studenti bit generation» (Sovera, 94 pagine) [a fianco, la copertina; sotto, l'autrice], muovendosi sul filo della rimarcata distinzione tra over e under, tra l'Italia «con la pensione alta» e quella con la «pressione bassa», tra chi negli anni Sessanta sfidava l'autorità e chi oggi a quegli stessi sfidanti si prostra. «Sembra che il prolungamento dell'età [...] abbia regalato ad una generazione la possibilità di tenere nell'armadio abiti rivoluzionari dimessi: ma se la scena è dei padri e le madri, ai figli non resta che far loro da controfigure?». Evidentemente no: è tempo di essere padroni della scena - nel lavoro, nell'istruzione, nell'uso del tempo libero; non si può essere definiti solo per differenza in quanto opposti ai protagonisti. E se i trentenni sono «disarmati di efficacia», per cambiare serve un intervento di polso. Insieme, dimenticando la logica dell' "Io speriamo che me la cavo".
Da che parte cominciare? Dall'università, dove il libro nasce, ampliamento di una lettera pubblicata su Repubblica e della tesi di laurea specialistica in scienze della comunicazione alla Sapienza. Qui l'autrice è stata rappresentante di facoltà, presidente della Consulta provinciale degli studenti, collaboratrice ai gruppi di ricerca sulle riforme e con la stessa passione della militanza invita ad «abbandonarsi agli studi», a essere più concentrati, ma anche a mischiare competenze e saperi e a rimboccarsi le mani sfuggendo all'iperspecializzazione - specie quella di master fantasiosi. Attivismo su tutti i fronti, insomma. Il «pit-stop» del 3 più 2 certo non aiuta (c'è spazio anche per un breve confronto con l'Europa attraverso la voce di studenti Erasmus in Italia), e lo stesso vale per l'organizzazione della didattica, le necessarie pratiche burocratiche, la tempistica di alcuni bandi. La sensazione "Aspettando Godot" è diffusa tra quanti studiano sotto l'attuale riforma, ma spetta innanzitutto a chi l'università la vive - o la subisce - proporre un altro modo.
Dopo la laurea poi «serve una introduzione nel mondo del lavoro di grinta», che comincia dal capitolo stage - a proposito anche di "contagio" tra sapere e saper fare. Stage gratis? «Cioè? Che lavoro ma non mi pagano, classico. O, ops, sì, che mi offrono la possibilità, pensate, di impiegare le mie ore per una prestazione di lavoro in cui non devo sborsare un euro. Non è grandioso?». Affacciandosi al mondo del lavoro bisogna saper dire no se necessario, ma anche pensare in grande e rompere qualche paradigma: perché ad esempio dopo le 18 tutto dovrebbe fermarsi, proprio quando finiscono gli impegni di studio e lavoro? Chiusi gli uffici, ma chiusi anche i luoghi della cultura e dello sport dove incontrarsi e far girare le idee. La proposta dell'autrice è interessante: innestare nell'economia lo stile dei giovani, istituendo ad esempio una terza fascia lavorativa che tenga aperte anche di notte le porte di mostre, biblioteche, centri di ricerca, palazzetti. Creando - punto cruciale - molti posti di lavoro in più e trasformando i giovani da consumatori a professionisti della notte.
L'invito appassionato di un'esponente così atipica della «generazione Quiete» è quello a "svegliarsi", a pretendere il massimo da se stessi e non dagli altri, a sognare in grande e coltivare i sogni con impegno, stringere i pugni e sbatterli se necessario. Con la convinzione che ci sia una buona parte dell'Italia "in jeans" pronta ad accogliere questo invito.
Annalisa Di Palo
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