Nella vita pubblica italiana si parla sempre di cambiare l’Italia, ma si illustrano solo idee e mai metodi per mettere in pratica realmente il cambiamento. Prova a farlo Alessandro Rimassa nel suo libro «È facile cambiare l’Italia, se sai come farlo», recentemente pubblicato da Hoepli. Direttore della Scuola di management e comunicazione di Ied, già scrittore, conduttore televisivo e giornalista professionista, Rimassa, 38 anni, è stato anche uno degli autori del bestseller «Generazione mille euro», tradotto in sette lingue e diventato un film. La Repubblica degli Stagisti lo ha intervistato per capire quali siano i metodi per cambiare l’Italia.
Com’è nata l’idea di scrivere «È facile cambiare l’Italia, se sai come farlo»?
Mi capitava spesso, occupandomi di formazione e consulenza, di trattare all’interno di conferenze o dibattiti alcuni argomenti di cui poi ho scritto nel libro: vedevo che c’erano una serie di temi legati al cambiamento in atto che risultavano interessanti e suscitavano dibattito. Non c’erano però testi di riferimento per chi voleva approfondire queste cose.
Dei dieci metodi per lanciare la rivoluzione culturale in Italia elencati nel libro, qual è il più importante?
Credo che i più importanti siano il primo e l’ultimo. Non si produce vero cambiamento se non si è in grado di avere una visione di quale può essere il proprio obiettivo e la propria strategia, e quindi senza di questo non si può costruire il futuro di un paese. Dall’altra parte senza la rete e la possibilità di condividere in maniera virale i propri valori e obiettivi, non si riesce a mettere in atto un reale cambiamento.
Il primo metodo è costruire una visione: oggi c’è qualche leader politico capace di farlo?
Nella storia recente del nostro Paese siamo stati ingannati forse più di una volta da leader che apparentemente avevano una visione: Berlusconi da un lato e Nichi Vendola dall'altro. Oggi la stessa situazione c’è con Matteo Renzi, che per molti è il politico in grado di cambiare davvero il Paese perché sembra avere un’idea di quello che vuole costruire. Sostengo il cambiamento che propone e la proattività che ha nel farlo. Credo però che si debba passare da una fase propagandistica a una concreta di cambiamento del metodo con cui si fanno le cose. Non basta dire partiamo dal basso anziché dall’alto.
Il suo quinto metodo per il cambiamento è dedicato alla formazione continua, eppure in Italia è deprimente anche solo guardare ai programmi di aggiornamento professionale organizzati dagli Ordini...
Sono un giornalista, così ho deciso di capire come funzionava la formazione continua del mio Ordine e sono agghiacciato. Il giornalismo è in fase di totale rivoluzione e vengono proposti corsi tenuti da persone in pensione da dieci anni. Vuol dire che non si è capito proprio niente. Serve una formazione continua differente, proattiva e che non debba sempre generare un costo da sostenere. Oggi abbiamo n-mila opportunità per aggiornarci: con la lettura, con i corsi online di grandi università che li propongono in maniera gratuita. Credo che il successo personale nel mondo professionale sia legato a una formazione continua, ma sia necessaria un’enorme operazione culturale in questo senso. Spiegare che in un mondo in cui si progredisce solo se si innova, non si sarà mai in grado di innovare se non si continua a studiare.
Lei sostiene che bisognerebbe mettere i giovani al centro del sistema: il cambiamento che c’è stato nel parlamento italiano e nel governo Renzi, i più giovani di sempre, è reale o solo di facciata?
È sicuramente un primo passo di immagine, e in un mondo che con l’immagine ha a che fare mi sembra sia importante. Non credo che mettere i giovani al centro del sistema significhi semplicemente sostituire un vecchio con un giovane, non ne faccio una mera questione generazionale. Credo si debbano liberare spazi affinché i giovani possano autoaffermarsi, non che si debbano cooptare giovani in spazi prima occupati da vecchi. Altrimenti ci perdiamo un meccanismo meritocratico che è sostanziale: tra un 60enne bravo e un 20enne non bravo saremmo stupidi a scegliere il secondo. Dobbiamo creare un sistema all’interno del quale i giovani possano mettere davvero in mostra le proprie competenze.
Nel libro lei cita una frase di Tito Boeri, «Un Paese che dimostra di non saper investire nei giovani non ha proprio futuro».
La frase Boeri l’ha detta quando stavo chiudendo il libro: la condivido totalmente e credo che, da quando ho iniziato a scriverlo con un lavoro di analisi, ricerca e studio due anni fa, qualcosa sia iniziato a cambiare. Stiamo vivendo una fase di cambiamento, basti pensare alle tante startup che nascono, agli spazi di co-working, alle social script, alla diffusione della sharing economy. Tutto questo sta accadendo per volontà di persone che si mettono insieme per farlo accadere. Ma a questa fase dal basso deve unirsene una dall’alto. Chi governa e guida le imprese dovrebbe essere maggiormente protagonista di questo cambiamento.
Mario Monti aveva definito i trenta-quarantenni una generazione perduta.
Sono parte di quella generazione, avendo 38 anni. Siamo una generazione sfortunata, cresciuta con un modello socioeconomico che pensava di poter continuare a interpretare. Era quello del posto fisso totale: sul lavoro, sulla casa di proprietà, sul matrimonio. Una vita tutta in discesa o quantomeno abitudinaria. Poi mentre entravamo nel mondo del lavoro abbiamo scoperto che quel sistema si stava disgregando. Chi ha vent'anni oggi, invece, lo ha visto disgregarsi quando era piccolo, quindi sa di dover giocare senza regole, o costruendone nuove. Noi siamo più in difficoltà perché ci aspettavamo qualcosa che di fatto non abbiamo trovato. Però dire che siamo una generazione perduta o un esperimento sociale fallito, intanto mi fa pietà che lo dica chi quell’esperimento l’avrebbe portato avanti e, poi, non credo che una società possa progredire lasciando indietro un’intera generazione. Credo, però, che la responsabilità dei 30-40enni oggi sia enorme. Possiamo occupare posti di responsabilità e far progredire questa società, ma dobbiamo farlo in maniera diversa da chi ci ha preceduti: a tempo determinato, in maniera condivisa, senza lasciare indietro nessuno. Se faremo questo, riusciremo a far progredire il Paese e arriverà velocemente lo spazio anche per i più giovani. Se invece faremo i finti incavolati, prenderemo il potere e poi ce lo terremo fino a 70anni allora la colpa della distruzione totale di questo Paese sarà tutta nostra.
In un capitolo dedicato alle start up - esplose in Italia negli ultimi tempi – viene evidenziata la mancanza della cultura del fallimento nel nostro Paese. In questo senso stiamo facendo qualche passo avanti?
Credo di sì ed è il punto fondamentale. In Italia fallire è considerato un che di personale che ti mette ai margini della società quando, invece, nel mondo anglosassone fallire è una parte del percorso, un rischio che si può correre. Credo che tra i giovani sia più diffusa, ma visto che siamo una società anziana si deve fare ancora tantissimo. Dobbiamo riabituarci a dire che la cosa fondamentale è rischiare, provare, fare, agire: si può anche sbagliare, si fallisce e poi ci si rialza in piedi più forti. In America dicono fail fast, fallisci velocemente, se devi farlo e sei a rischio. Quello di cui abbiamo veramente bisogno è una grande rivoluzione culturale, ma non si fa in tre mesi o due anni: si hanno risultati in 15-20 anni.
La cultura del - possibile - fallimento. Una persona che intervistammo pochi mesi fa nella nostra rubrica Startupper ci disse “Fallire è un immane lusso nella vita, ma noi non siamo abituati a farlo”. Di gestione del fallimento parla anche lei.
Sì: dobbiamo imparare che la ricerca del successo nel mezzo ha degli ostacoli. A volte si cade e ci si rialza, a volte no e bisogna cambiare strada. Ma il nostro obiettivo deve essere più grande, deve portarci lontano. Il fallimento nel mezzo ci sta tutto. Dobbiamo smettere di aver paura di fallire, perché se hai paura, poi sbagli. Come nel calcio: se vai sul dischetto per tirare un rigore e hai paura, sicuramente lo tirerai male. Se non ce l’hai o hai la giusta dose che diventa adrenalina allora quel rigore lo tiri con tutta la tua convinzione.
Chiude il libro una frase di Adriano Olivetti datata 1949. Quanto dista l’Italia di oggi da quella del dopoguerra?
Credo che oggi dobbiamo ricostruire una società con al centro l’essere umano e questo non significa negare il successo o la ricchezza. La società teorizzata e tentata da Adriano Olivetti, in particolare poi con il progetto Comunità, sapeva includere e anche premiare i migliori. Mi sarebbe piaciuto che avesse avuto a disposizione l’incredibile potenza della rete, la rapidità, la sua condivisione e collaborazione, perché magari il suo progetto con gli strumenti e la possibilità di contatto tra le persone che c'è oggi avrebbe avuto successo.
Ma dovendo trarre una conclusione, è davvero possibile cambiare l’Italia?
È chiaro che se non ci provi di certo non ci riesci. Qualche settimana fa ero ospite a Omnibus e un giornalista diceva che fare impresa in Italia è impossibile per la burocrazia, le tasse, il cuneo fiscale. Ho risposto: in Italia c’è una burocrazia folle e un cuneo fiscale insensato. Questa è la situazione, possiamo decidere di non fare impresa o di farla e denunciare la situazione, provando a cambiarla. Le condizioni di base restano, sta a noi decidere cosa fare. Credo sia il momento di provarci e se questo movimento del cambiamento che è in atto prosegue, allora ci saranno condizioni per disegnare un Paese nuovo. Forse non sarà rapidissimo e semplice, ma dobbiamo intimamente credere che sia davvero facile cambiare l’Italia.
Marianna Lepore
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