Sette pagine. Tanto è lungo il "Jobs Act", la riforma del lavoro che il governo Renzi sta portando avanti in Parlamento. Qualche giorno fa il Senato l'ha approvato, con un voto di fiducia, proprio a ridosso dell'incontro a Milano di tutti i capi di stato e di governo sul tema dell'occupazione. Ora la discussione si sposta alla Camera. Ma cosa c'è scritto in questo Jobs Act? Innanzitutto è bene sapere che non si tratta di una legge "normale", cioè di un testo normativo che viene approvato dai due rami del Parlamento, pubblicato in Gazzetta Ufficiale e da quel momento diventa operativo. No. Il Jobs Act è una legge delega: un testo cioè in cui il Parlamento autorizza («delega», appunto) il governo a legiferare su un certo tema, fornendo ovviamente una traccia e un confine a cui il governo dovrà attenersi.
Dunque si può pensare il Jobs Act come una partita in tre fasi. Le prime due sono l'approvazione al Senato (avvenuta) e quella alla Camera (in fieri), che però potrebbero necessitare di tempi supplementari perché se la Camera modificherà anche solo una parola del testo approvato dal Senato, ci sarà bisogno di un nuovo passaggio di approvazione da parte di quest'ultimo. Siamo infatti - ancora per poco, forse - una democrazia organizzata come bicameralismo perfetto, e dunque tutte le leggi devono essere approvate da entrambi i rami del Parlamento in maniera univoca. La terza fase, una volta ottenuta l'approvazione definitiva dal Parlamento, sarà giocata dal governo e in particolare dal Ministero del Lavoro: perché a quel punto la squadra di Renzi e Poletti dovrà scrivere i decreti che daranno gambe al Jobs Act - tutti entro un massimo di 6 mesi.
Ma cosa prevede, in concreto, questa riforma del lavoro presentata come una rivoluzione dai suoi sostenitori e bollata come una peste bubbonica dai detrattori? Il Jobs Act è composto da un solo articolo, intitolato «Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonchè in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro». Il cuore del testo si compone di 8 commi: sostanzialmente per ciascuno dei 4 macrotemi vi è un comma che dice "faremo questo" e il comma successivo che specifica "come lo faremo".
Ecco come lo vedo io.
Comma 1 e 2. Tra i criteri direttivi che il Parlamento fornisce al governo per elaborare il testo definitivo del Jobs Act sotto il profilo della riforma degli ammortizzatori sociali si trovano, per quanto riguarda gli strumenti di tutela in costanza di rapporto di lavoro, la «previsione di una maggiore compartecipazione da parte delle imprese utilizzatrici», la «revisione dell’ambito di applicazione della cassa integrazione guadagni ordinaria e straordinaria e dei fondi di solidarietà» e «delle regole di funzionamento dei contratti di solidarietà», oltre che la sempreverde «semplificazione delle procedure burocratiche attraverso l’incentivazione di strumenti telematici e digitali». Per quanto riguarda il capitolo delle «strumenti di sostegno in caso di disoccupazione involontaria», il testo della legge delega prevede una «rimodulazione dell’Assicurazione sociale per l’impiego (ASpI), con omogeneizzazione della disciplina relativa ai trattamenti ordinari e ai trattamenti brevi» e sopratutto una «universalizzazione del campo di applicazione dell’ASpI, con estensione ai lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa», cioè i cococo e i cocopro. A fronte di queste migliorie, è prevista l'introduzione di «meccanismi che prevedano un coinvolgimento attivo del soggetto beneficiario dei trattamenti» e un generale «adeguamento delle sanzioni e delle relative modalità di applicazione, in funzione della migliore effettività, secondo criteri oggettivi e uniformi, nei confronti del lavoratore beneficiario di sostegno al reddito che non si rende disponibile ad una nuova occupazione, a programmi di formazione o alle attività a beneficio di comunità locali». Insomma, i disoccupati verranno sostenuti di più, ma si dovranno anche dare da fare.
Mi piace perché: si ripropone di «assicurare, in caso di disoccupazione involontaria, tutele uniformi e legate alla storia contributiva dei lavoratori, di razionalizzare la normativa in materia di integrazione salariale», cioè di garantire un sussidio di disoccupazione anche alla maggior parte dei tantissimi lavoratori che finora ne sono rimasti esclusi.
Il tassello che mi lascia perplessa: innanzitutto il fatto che, pur essendo nelle intenzioni una riforma degli ammortizzatori sociali in senso universalistico, in realtà non prevede un sussidio universale, a tutti-tutti coloro che restano temporaneamente senza lavoro. Continueranno cioè ad esserci persone che non avranno diritto al sussidio. Inoltre anche l'allargamento non sarà immediato: il testo della legge delega prevede infatti «prima dell’entrata a regime, un periodo almeno biennale di sperimentazione a risorse definite». Quelle ultime due paroline, «risorse definite», rischiano di voler dire che l'estensione del sussidio ai nuovi beneficiari verrà prevista con una copertura finanziaria limitata, e una volta raggiunta quella cifra, chi lo richiederà resterà fuori. Un meccanismo simile è stato già utilizzato in passato, per esempio con i sussidi "una tantum". Ipotizzando una approvazione definitiva del Jobs Act entro la fine dell'anno, e una pubblicazione dei vari decreti legislativi prima dell'estate 2015, non si potrà parlare di sussidio di disoccupazione davvero esteso fino alla fine del 2018.
Comma 3 e 4. Prevede il «riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e di politiche attive». Il governo dovrà mettere a punto il decreto legislativo corrispondente concordandolo con la Conferenza Stato-Regioni, ma è esplicitamente previsto che «in mancanza dell’intesa» il governo possa procedere autonomamente. Anche in questo caso il Parlamento impone al governo di rispettare alcuni criteri, tra cui per esempio la «razionalizzazione degli incentivi all’assunzione esistenti, da collegare alle caratteristiche osservabili per le quali l’analisi statistica evidenzi una minore probabilità di trovare occupazione, e a criteri di valutazione e di verifica dell’efficacia e dell’impatto» e soprattutto la «istituzione […], di un’Agenzia nazionale per l’occupazione, di seguito denominata “Agenzia”, partecipata da Stato, regioni e province autonome, vigilata dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali».
Tra i punti interessanti vi è il «rafforzamento delle funzioni di monitoraggio e valutazione delle politiche e dei servizi» - finalmente un po' di accountability! - e la «valorizzazione delle sinergie tra servizi pubblici e privati, al fine di rafforzare le capacità d’incontro tra domanda e offerta di lavoro», che si dovrebbe concretare attraverso «accordi per la ricollocazione che vedano come parte le agenzie per il lavoro o altri operatori accreditati, con obbligo di presa in carico, e la previsione di adeguati strumenti e forme di remunerazione, proporzionate alla difficoltà di collocamento, a fronte dell’effettivo inserimento almeno per un congruo periodo»: andando dunque a imparare là dove le competenze per il collocamento dei lavoratori ci sono davvero.
Mi piace perché: è prevista una «valorizzazione del sistema informativo per la gestione del mercato del lavoro e il monitoraggio delle prestazioni erogate» e una «semplificazione amministrativa in materia di lavoro e politiche attive, con l’impiego delle tecnologie informatiche […] allo scopo di rafforzare l’azione dei servizi pubblici nella gestione delle politiche attive e favorire la cooperazione con i servizi privati, anche mediante la previsione di strumenti atti a favorire il conferimento al sistema nazionale per l’impiego delle informazioni relative ai posti di lavoro vacanti»: forse potrebbe essere la volta buona per un'adozione su scala nazionale del progetto delle Mappe del lavoro.
Il tassello che mi lascia perplessa: essenzialmente che questa Agenzia per l'occupazione, che dovrebbe andare a coordinare le attività dei centri per l'impiego, venga prevista tassativamente «senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica» e anzi: «al cui funzionamento si provvede con le risorse umane, finanziarie e strumentali già disponibili a legislazione vigente». Perché il problema dell'efficacia dei servizi all'impiego, oggi drammaticamente inefficienti, sta anche nello scarso numero e nella scarsa preparazione dei dipendenti di questo comparto. E allora come si puà pensare che le risorse umane già esistenti, e già comprovatamente inadeguate, possano garantire a chi cerca lavoro «percorsi personalizzati» come avviene per esempio nei Paesi del centro e nord Europa?
Comma 5 e 6. In questa parte del Jobs Act viene esposto un auspicio assolutamente condivisibile, la «semplificazione e razionalizzazione delle procedure e degli adempimenti a carico di cittadini e imprese». Il parlamento chiede al governo di legiferare «con l’obiettivo di dimezzare il numero di atti di gestione del medesimo rapporto, di carattere amministrativo» ed eliminando e semplificando le «norme interessate da rilevanti contrasti interpretativi, giurisprudenziali o amministrativi»: magari! Vengono predisposte anche l'«unificazione delle comunicazioni alle pubbliche amministrazioni per i medesimi eventi e obbligo delle stesse amministrazioni di trasmetterle alle altre amministrazioni competenti» e l'«abolizione della tenuta di documenti cartacei».
Mi piace perché: perché se venisse davvero realizzato sarebbe una rivoluzione: solo il pensiero che venga introdotto un sacrosanto «divieto per le pubbliche amministrazioni di richiedere dati dei quali esse sono in possesso», anziché costringere i cittadini a fare file estenuanti, ping pong tra uffici, per consegnare documenti che di fatto la pubblica amministrazione già detiene, fa commuovere.
Il tassello che mi lascia perplessa: vi sono nel testo riferimenti al contrasto alle dimissioni in bianco e al lavoro sommerso, e ciò è ovviamente un bene. Specialmente per il primo tema, però, la formula non è incisivissima: il testo promette «modalità semplificate per garantire data certa nonché l’autenticità della manifestazione di volontà del lavoratore in relazione alle dimissioni o alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro», ma non è molto chiara la seconda parte della frase, che recita «anche tenuto conto della necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente in tal senso del lavoratore». Il proposito di ispirarsi alla risoluzione del Parlamento europeo dello scorso 14 gennaio «sulle ispezioni sul lavoro efficaci come strategia per migliorare le condizioni di lavoro in Europa» sarebbe poi anche buono, ma come fare con un numero così ridotto di ispettori del lavoro attivi? Nel comma successivo si fa, in effetti, riferimento alla «razionalizzazione e semplificazione dell’attività ispettiva» con l'istituzione di una «Agenzia unica per le ispezioni del lavoro, tramite l’integrazione in un’unica struttura dei servizi ispettivi del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, dell’Inps e dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (Inail), prevedendo strumenti e forme di coordinamento con i servizi ispettivi delle aziende sanitarie locali e delle agenzie regionali per la protezione ambientale». Basterà?
Comma 7. Siamo al punto più controverso: in questo comma sta infatti il cuore della riforma del lavoro, con tutto il dibattito che si è essenzialmente concentrato sull'articolo 18. Che però, curiosamente, non viene nemmeno nominato; così come non vi è alcun cenno al testo normativo del quale esso fa parte, e cioè lo Statuto dei lavoratori. Il testo prevede di «riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo». Il governo Renzi si impegna - sempre entro i soliti sei mesi - a emanare un decreto legislativo «recante un testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro». Il testo licenziato dal Senato prevede che alcuni contratti possano essere aboliti («individuare e analizzare tutte le forme contrattuali esistenti, ai fini di poterne valutare l’effettiva coerenza con il tessuto occupazionale e con il contesto produttivo nazionale e internazionale, in funzione di interventi di semplificazione, modifica o superamento delle medesime tipologie contrattuali») per sostenere il contratto a tempo indeterminato «come forma privilegiata di contratto di lavoro» e cioè rendendolo finalmente «più conveniente rispetto agli altri tipi di contratto in termini di oneri diretti e indiretti». Mentre ora è esattamente il contrario: i contratti precari sono più convenienti di quelli stabili. La modalità attraverso cui Renzi si propone di centrare l'obiettivo è il «contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio». E poi anche a livello di diritto del lavoro e di contenzioso si promette una azione decisa di semplificazione, con la «abrogazione di tutte le disposizioni che disciplinano le singole forme contrattuali, incompatibili con le disposizioni del testo organico semplificato, al fine di eliminare duplicazioni normative e difficoltà interpretative e applicative».
Mi piace perché: si fa riferimento alla «introduzione, eventualmente anche in via sperimentale, del compenso orario minimo, applicabile ai rapporti aventi ad oggetto una prestazione di lavoro subordinato, nonché ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, nei settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro». Qui il Senato ha apportato una modifica molto importante rispetto al primo testo di Jobs Act che era stato proposto dal Governo, allargando il raggio d'azione di questo compenso orario minimo ai cococo e cocopro.
Il tassello che mi lascia perplessa: l'incertezza su quanti e quali tipologie contrattuali verranno soppresse, e quell'«eventualmente anche in via sperimentale» riferito al salario minimo: perché mai in via sperimentale? Se questa misura è già in vigore in oltre due terzi degli Stati europei, ed è stata recentissimamente introdotta anche in Germania, cosa ci sarà mai da sperimentare?
Comma 8. Il Jobs Act parla infine di «genitorialità», prevedendo «la revisione e l’aggiornamento delle misure volte a tutelare la maternità e le forme di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro», in particolare «nella prospettiva di estendere, eventualmente anche in modo graduale, tale prestazione a tutte le categorie di donne lavoratrici» (anche quelle al momento escluse). Tra i punti interessanti la «garanzia, per le lavoratrici madri parasubordinate, del diritto alla prestazione assistenziale anche in caso di mancato versamento dei contributi da parte del datore di lavoro» e la «incentivazione di accordi collettivi volti a favorire la flessibilità dell’orario lavorativo e dell’impiego di premi di produttività, al fine di favorire la conciliazione tra l’esercizio delle responsabilità genitoriali e dell’assistenza alle persone non autosufficienti e l’attività lavorativa, anche attraverso il ricorso al telelavoro». C'è posto in questo comma anche per gli asili nido - si parla di «integrazione dell’offerta di servizi per l’infanzia forniti dalle aziende e dai fondi o enti bilaterali nel sistema pubblico-privato dei servizi alla persona, anche mediante la promozione dell’utilizzo ottimale di tali servizi da parte dei lavoratori e dei cittadini residenti nel territorio in cui sono attivi» - e viene prospettata la possibilità di una revisione della legge che regola i congedi di maternità e di paternità, «per garantire una maggiore flessibilità dei relativi congedi obbligatori e parentali, favorendo le opportunità di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro».
Mi piace perché: è un bene che si parli di genitorialità, superando il preconcetto per il quale la conciliazione sarebbe un affare esclusivamente femminile.
Il tassello che mi lascia perplessa: una eccessiva gradualità e i contorni troppo sfumati della delega: il congedo di paternità per esempio, che il governo Monti ha varato in maniera quasi offensiva prevedendo un solo giorno di congedo obbligatorio retribuito per i neopadri, verrà rivisto ed esteso oppure no? Inoltre, al posto di terminologie obsolete come il «telelavoro», avrei preferito si parlasse di «smart working» (dato che giace anche in Parlamento una proposta di legge bipartisan in tal senso).
Eccolo qui, in sintesi ma non troppo, il Jobs Act di cui tutti parlano. Una misura eccezionale? Uno specchietto per le allodole? Una accozzaglia di buoni propositi che non vedrà mai la luce? Oppure un propulsore per proiettare il mercato del lavoro italiano nel futuro dei Paesi avanzati? Lo potrà dire solamente il tempo. Nel frattempo, noi qui sulla Repubblica degli Stagisti ci prendiamo come al solito con i lettori l'impegno di seguire passo dopo passo l'iter non solo della legge delega, ma anche di tutti i singoli decreti legislativi che dovranno rendere concreto e operativo il Jobs Act.
Eleonora Voltolina
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