Preparate, competenti e competitive sui banchi di scuola e dell’università, anche più dei colleghi maschi, eppure ancora oggi un passo indietro nel mondo del lavoro: che le donne siano spesso penalizzate non è uno stereotipo ma una realtà che emerge dai dati. Direttori e presidenti, amministratori delegati, membri dei consigli di amministrazione: la corsa ad armi pari spesso si arresta lì, quando è il momento di sedersi nei “posti che contano”.
Ma una volta tanto l'Italia corre e, per una volta, mostra la strada al resto d'Europa verso il traguardo della parità di genere. Sulle poltrone dei consigli di amministrazione delle società italiane quotate in borsa siedono infatti oggi molte più donne di ieri: il 22,6%, con un incremento non da poco, considerando che nel 2010 erano solo il 6%. A segnare il passo, la legge 120 sulle quote rosa introdotta tre anni fa. Il dato rimbalza dalla conferenza "Women on board" organizzata qualche giorno fa al Parlamento europeo a Bruxelles da Alessia Mosca, oggi europarlamentare Pd ma fino a pochi mesi fa deputata e, in quella veste, promotrice nel 2011 della legge insieme alla collega Lella Golfo, con un sostegno parlamentare trasversale.
Le quote rosa funzionano, almeno in Italia. Il famoso "tetto di cristallo" si sta rompendo, ma il rischio, avvertono da Bruxelles, è di fermarsi ancora una volta un passo prima dei posti che contano: in Norvegia, ad esempio, gli amministratori delegati donne latitano - sono solo il 6% - nonostante una legge sulle quote rosa nei cda sia in vigore da dieci anni. I senior manager sono ancora soprattutto uomini: segno che tra l’obbligo imposto da una legge e l’effettiva parità dei generi nel mondo del lavoro c’è di mezzo un cambiamento, anche culturale, da realizzaere. Lo stesso vale per il resto d'Europa: nel 2014 le "amministratrici delegate" sono meno del 6%, dice uno studio del centro Egon Zehnder.
«La quota non è fine a se stessa. E' uno strumento per dare una scossa al sistema e migliorarlo. Dobbiamo spingere per la diversità come valore», avverte però Alessia Mosca: «La nostra più grande sfida ora non è solo arrivare ad una percentuale di donne ai vertici diversa da quella da cui partiamo, ma anche dimostrare che i luoghi di lavoro con maggiore mix di genere portano a migliori performance aziendali».
Tutto questo mentre l'Europa tira ancora una volta il freno sulla direttiva per l'equilibrio dei generi, proposta nel 2012 dall'allora commissario e ora europarlamentare Viviane Reding: «E' stata la mia più grande battaglia nel collegio dei Commissari», ammette, quando ricorda il progetto di portare al 40% entro il 2020 il limite minimo del genere sottorappresentato nei cda delle società quotate - o al 33% nel caso si includano anche le posizioni di amministratore delegato. Per farlo, la direttiva disegnata dall'ex commissario Reding vorrebbe spingere le società verso l’adozione di procedure di selezione trasparenti, fondate su qualifiche e merito: «Quello che avevo in mente erano delle "quote procedurali": non volevo che le società fossero obbligate a prendere una donna in quanto tale, ma che fosse data alla donne la possibilità di competere alla pari con gli uomini».
La battaglia, se non è persa, per ora è quanto meno rimandata: nell'ultimo Consiglio europeo per gli Affari sociali a guida italiana, l'11 dicembre scorso, gli Stati membri non hanno infatti raggiunto una posizione comune sulla direttiva, che era stata approvata in prima lettura dal Parlamento europeo nel novembre del 2013. «E' più necessario che mai, abbiamo solo il 16% di donne nei cda europei, nonostante il 50% dei laureati siano donne. Il loro talento non deve essere sprecato», ha commentato la nuova commissaria all'Occupazione, la belga Marianne Thyssen. Il ministro Giuliano Poletti si è detto comunque fiducioso, «visto che il lavoro è avanzato». Il dossier passerà ora alla presidenza lettone che si insedierà a gennaio e che avrà il compito di guidare gli Stati membri verso un nuovo compromesso per raggiungere un accordo. Eventuali emendamenti del Consiglio dovranno poi tornare in discussione in seconda lettura al Parlamento.
Ecco allora che l'Italia può diventare un laboratorio per il resto d'Europa, anche se nella classifica mondiale sulle disparità di genere ("gender pay gap") del World Economic Forum risulta ancora indietro: «Siamo al 129° posto su 136 Paesi, ma con la legge 120 sono stati fatti passi avanti», spiega Parrella. Le note positive però non mancano: le quote rosa italiane (20% minimo di donne nei cda delle società quotate, con un incremento al 33% al terzo rinnovo) non sono solo una questione di numeri e sanzioni: «Non abbiamo mai dovuto decretare la decadenza di un Consiglio per la mancata applicazione delle regole», precisa Monica Parrella, direttore del dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio.
E in più «i board italiani rinnovati dopo la riforma sono in genere più giovani e con membri più istruiti. Significa che l'obbligo delle quote ha innescato un processo positivo, che ha spinto a selezionare migliori candidati anche tra gli uomini, non solo tra le donne»: lo sottolinea Paola Profeta, professore di Scienza delle finanze all'università Bocconi, che sotto il coordinamento del dipartimento Pari opportunità ha condotto lo studio "Women mean business and economic growth", scattando una foto, dopo l'introduzione della legge Golfo-Mosca, ai cda e collegi sindacali delle società italiane quotate e analizzando oltre 3100 curricula.
La prossima sfida è dunque dimostrare come e quanto il mix di genere possa influire positivamente sulle performance aziendali e sui risultati di mercato. «Le quote dovrebbero essere parte di una visione più ampia. l'obiettivo finale è promuovere la parità dei generi. Ma anche le motivazioni economiche sono importanti», puntualizza Profeta. "L'effetto Norvegia" poi resta concreto, in Italia e in tutta Europa: «C'è bisogno che le donne che siedono ora nei consigli promuovano una nuova organizzazione del lavoro» avverte Parrella: «Altrimenti rischiamo che dopo alcuni anni il ricambio non sia pronto e che la legge sulle quote resti un'occasione sprecata».
Maura Bertanzon
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