La Costituzione sancisce il diritto di ogni lavoratore a una retribuzione «sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa». Eppure milioni di giovani laureati in Italia lavorano gratis, o per stipendi miseri, e per sopravvivere devono appoggiarsi alle famiglie fino a un'età in cui dovrebbero e vorrebbero essere pienamente adulti e autonomi. Dalla piaga dello sfruttamento non scampa nessuno, come ha raccontato Eleonora Voltolina nel libro Se potessi avere mille euro al mese: dall'architetto costretto ad aprire la partita Iva pur avendo un solo committente al medico che prima di entrare in specializzazione lavora per anni gratuitamente. Oggi la Repubblica degli Stagisti inizia un viaggio nel pianeta delle professioni sottopagate. Prima tappa: i praticanti avvocati.
Per la maggior parte di loro un’ora di lavoro vale poco più di un caffè: 1,15 euro. Il dato è solo una dei tanti che si possono estrarre dalle Tabelle sulla situazione pratica forense 2013, frutto di una ricerca “dal basso” svolta da un gruppo di praticanti di Genova sulla base delle risposte di 1.235 colleghi in tutta Italia. Si tratta di un sondaggio effettuato su un campione ridotto e quindi da valutare con cautela, ma la situazione descritta rende bene la drammaticità della condizione in cui vivono gli aspiranti avvocati italiani. Il dato più vistoso riguarda la retribuzione mensile, che è totalmente assente per il 57% degli intervistati e inferiore ai 150 euro nel 5% dei casi. Un quarto del campione, poi, percepisce tra i 150 e i 500 euro. Solo meno di uno su dieci va oltre i 500 euro. Ma non è solo il compenso a lasciare l’amaro in bocca: quasi la metà di chi ha partecipato alla ricerca ritiene “scarse” le prospettive di carriera nella struttura in cui ha cominciato a lavorare, e uno su cinque le considera addirittura nulle.
Dato un quadro così desolante, cosa ha spinto i 32.421 giovani iscritti alla sessione 2011/2012 degli esami di Stato a intraprendere questa strada? Semplice: non hanno altra scelta. Lo svolgimento della pratica forense è obbligatoria per accedere all'esame e poter diventare avvocati. A quasi 80 anni dal regio decreto del 1933, la norma che regolamenta la materia è stata modificata pochi mesi fa con la legge 247/2012. Dopo un iter di due anni, la “Nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense” è stata approvata in via definitiva dal Senato il 21 dicembre, proprio agli sgoccioli della scorsa legislatura.
Numerose le novità sul fronte dell'accesso alla professione: innanzitutto, la durata della pratica è ridotta da 24 a 18 mesi, come espressamente previsto dal decreto liberalizzazioni (convertito nella legge 27/2012). Inoltre ai praticanti è consentito svolgere, oltre al tirocinio, anche un’attività di lavoro subordinato, ovviamente in assenza di conflitti di interessi o di orari rispetto al praticantato. Ma le buone notizie finiscono qui: la legge 247/2012 ha infatti accuratamente evitato di recepire l'art. 9 del decreto liberalizzazioni, che al comma 4 afferma: «Al tirocinante è riconosciuto un rimborso spese forfettariamente concordato dopo i primi sei mesi di tirocinio».
Ecco invece cosa stabilisce la nuova riforma forense in uno dei suoi passaggi più controversi, il comma 11 dell’articolo 41: «Negli studi legali privati, al praticante avvocato è sempre dovuto il rimborso delle spese sostenute per conto dello studio presso il quale svolge il tirocinio». Ma la determinazione delle spese è quanto di più aleatorio possa esistere: cosa comprende? Le spese di benzina? L'abbonamento ai mezzi pubblici? Il pranzo? E perché mai lo stesso sacrosanto principio non vale invece per che svolge la pratica negli enti pubblici?
Se dal rimborso spese si passa alla voce compenso, la riforma forense ha addirittura il sapore della beffa per i giovani aspiranti avvocati: «Ad eccezione che negli enti pubblici e presso l'Avvocatura dello Stato, decorso il primo semestre, possono essere riconosciuti con apposito contratto al praticante avvocato un'indennità o un compenso per l'attività svolta per conto dello studio, commisurati all'effettivo apporto professionale dato nell'esercizio delle prestazioni e tenuto altresì conto dell'utilizzo dei servizi e delle strutture dello studio da parte del praticante avvocato. Gli enti pubblici e l'Avvocatura dello Stato riconoscono al praticante avvocato un rimborso per l'attività svolta, ove previsto dai rispettivi ordinamenti e comunque nei limiti delle risorse disponibili a legislazione vigente».
Addirittura sembrerebbe che per i primi sei mesi la nuova legge vieti di pagare i praticanti. Questa interpretazione è stata confermata dall'ex ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione Filippo Patroni Griffi in risposta a un'interrogazione parlamentare: «La norma rinvia la determinazione dell'importo del rimborso per l'attività svolta dal tirocinante al libero accordo delle parti, che non può comunque essere erogato nei primi sei mesi di tirocinio». Dunque: primi sei mesi gratis per legge, mentre per i mesi restanti la riforma forense non istituisce alcun obbligo di compenso, diversamente da quanto affermato dal decreto liberalizzazioni.
La decisione è affidata alla magnanimità del singolo avvocato, come già avveniva prima della riforma forense, sebbene il Codice deontologico avesse sancito fin dal 1997 che ciascun professionista dovesse «fornire al praticante un adeguato ambiente di lavoro, riconoscendo allo stesso, dopo un periodo iniziale, un compenso proporzionato all’apporto professionale ricevuto». Ma quanto dura il periodo iniziale? E chi stabilisce quale sia il compenso proporzionato? La formulazione era sufficientemente ambigua da consentire agli studi privati e anche agli uffici legali degli enti pubblici di tutta Italia di ignorare il principio espresso dal Codice deontologico senza troppi scrupoli.
Per fortuna non tutti gli articoli della nuova legge sono entrati in vigore con decorrenza immediata (cioè il 2 febbraio 2013, 15 giorni dopo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale), poiché necessitano di ulteriori provvedimenti in seguito al conferimento delle deleghe in capo al governo. Riguardo al tirocinio, per ora è valido solo il termine della durata a 18 mesi mentre tutte le altre disposizioni, inclusa quella sull'indennità, necessitano di interventi legislativi ad hoc.
Poiché la norma sul compenso dei praticanti non è ancora in vigore, c'è speranza che qualcosa cambi? Qualche spiraglio di luce viene dal ddl appena presentato dalla venticinquenne deputata del Pd Anna Ascani insieme a una decina di giovani parlamentari. Il testo propone una modifica della legge 247/2012 che renda facoltativa per i primi sei mesi e obbligatoria per i restanti dodici la retribuzione dei praticanti. «L'ufficio legislativo del gruppo Pd ha avviato le procedure per la presentazione, ora verranno registrate le altre eventuali adesioni e poi si procederà con la presentazione definitiva», spiega la neodeputata. Ci sono speranze di successo? «L'iter legislativo della riforma forense ha dimostrato che l'introduzione di un compenso obbligatorio per i praticanti incontra forti resistenze, più che politiche, direi corporative e generazionali. Corporative perché il Senato che ha approvato questa legge era costituito per un sesto da avvocati: una vera e propria lobby arroccata in difesa dei propri privilegi. Generazionali perché molti parlamentari, se pur non contrari all'obbligatorietà del compenso, hanno pensato che la questione non fosse poi così rilevante. “In fondo, la gavetta l'abbiamo fatta tutti”, era l'idea più diffusa. Molti politici sono assolutamente insensibili alle richieste di una generazione di giovani preparati, sottopagati e privi di prospettive per il loro futuro.
La gavetta siamo disposti a farla tutti, se crediamo che nel giro di qualche anno ci porterà a cogliere i frutti dei nostri studi e dei nostri sacrifici. Ma per i ventenni-trentenni italiani oggi non è così: secondo la Cassa nazionale forense il reddito professionale di un avvocato a inizio carriera, dopo il superamento dell'esame, è di 10mila euro all’anno, 800 al mese. Confido nel fatto che il nuovo Parlamento, il più giovane della storia repubblicana, dimostri più sensibilità rispetto a questi temi».
Anche fuori dalle aule parlamentari c'è chi si sta muovendo a difesa dei giovani praticanti. Per esempio attraverso la campagna “Con il contratto”, promossa da Filcams Cgil, Nidil Cgil, Giovani NON+ disposti a tutto, insieme ad alcune associazioni di giovani professionisti. Una campagna rivolta a praticanti, tirocinanti, collaboratori a partita Iva e a progetto degli studi professionali per stimolare la loro partecipazione per la costruzione della contrattazione. «Abbiamo stilato un decalogo, dieci regole di civiltà per la vita dei giovani professionisti», spiega Ilaria Lani, 35 anni, responsabile dell'area politiche giovanili della Cgil. «Chiediamo che il praticantato possa essere svolto con un contratto di apprendistato del 3° tipo e che alcuni diritti minimi debbano essere garantiti a tutti, indipendentemente dalla forma contrattuale. Vogliamo un compenso iniziale di almeno 500 euro che aumenti nel tempo, la garanzia di un'effettiva formazione, la tutela della maternità e della malattia e l'obbligo di un contratto scritto per tutti, compresi praticanti e partite Iva».
Ma, si chiedono i più scoraggiati, tutte queste campagne serviranno poi a qualcosa? Un piccolo segnale di speranza viene dalla vicenda dei praticantati legali svolti presso l'Inps. Grazie a una giovane agguerrita, Francesca Esposito, che nel 2010 ha denunciato sulla Repubblica degli Stagisti la totale assenza di un compenso per gli aspiranti avvocati all'interno dell'ente previdenziale, la vicenda è approdata in Parlamento, dove il deputato di Futuro e libertà Enzo Raisi ha posto un'interrogazione a risposta diretta all'allora ministro del Lavoro Maurizio Sacconi. Il quale ha risposto che l'Inps ha bisogno dei praticanti perché ha tante cause da smaltire ma non ha fondi per pagarli. Un'ammissione imbarazzante che ha costretto il direttore delle risorse umane dell'ente pubblico Ciro Toma, incalzato nel corso di un'intervista a SkyTg24 nel maggio 2012, a promettere un cambio di rotta.
Com'è andata a finire? Nel bando per 266 praticanti avvocati presso l'ente previdenziale, pubblicato a luglio 2012, per la prima volta l'Inps ha previsto una “borsa di studio” di 450 euro mensili. Una storia che fa riflettere, perché dimostra che se ognuno fa la sua parte - diretti interessati, politica, sindacati, stampa - anche in Italia le storture si possono raddrizzare.
Anna Guida
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