Il fascino del design non tramonta, e ogni anno migliaia di ragazzi si iscrivono a scuole di architettura, disegno industriale, arti visive e chi più ne ha più ne metta con il sogno del cassetto di diventare i nuovi Philip Starck.
E' appena uscito un libro in cui una cinquantina di grandi designer - quasi tutti italiani - si raccontano: «Pane e progetto», sottotitolo «Il mestiere di designer» [qui a sinistra, la copertina] scritto dall'architetto Stefano Follesa e pubblicato da FrancoAngeli. Sebbene dei protagonisti del volume i più giovani siano nati a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio degli anni Settanta, attraverso questi racconti di vita vissuta anche i ragazzi di oggi possono riflettere, imparare, scorgere nuove prospettive.
Molto spesso il libro riporta storie eccezionali, difficilmente ripetibili: come quella di Antonio Citterio, che racconta con nonchalance che fondò il suo primo studio a diciott'anni e che ancor prima di laurearsi aveva già la sua indipendenza economica («Erano chiaramente degli anni straordinari - ammette però - era tutto molto più semplice»). Oppure quella di Simone Micheli, che a venticinque anni, fresco di laurea, si ritrovò a dirigere un importante studio rimasto in panne per la morte prematura del proprietario: «La mia esperienza era pressochè nulla - ricorda - Fui subito catapultato in un vortice di lavoro iperbolico». Vortice da cui scelse di allontanarsi dopo pochi mesi, rifiutando una strepitosa proposta economica pur di «seguire il cuore». O quella di Matteo Ragni, che solo ventiduenne (correva l'anno 1995) aveva già il suo primo pezzo in produzione: tra l'altro Ragni è l'unico dei designer intervistati a raccontare di aver fatto un'esperienza da stagista, o meglio - nel gergo del settore - da "tiralinee". Tutti i pomeriggi, dopo le lezioni al Politecnico di Milano, andava ad aiutare un grande vecchio dell'architettura a selezionare il materiale da inserire in un libro sulla sua carriera. Stage atipico, però, perchè da tiralinee il «giovane apprendista, sprovveduto aspirante architetto» si trasformò quasi subito in "nipote acquisito", rimase a bazzicare in quello studio per tre anni, e ancora ricorda il vecchio maestro, ormai scomparso, come un nonno.
La storia più bizzarra è forse quella di Gianfranco Gualtierotti, che da piccolo voleva fare il meccanico alla Ferrari - altro che designer! La sua gavetta è quindi molto diversa dagli altri: prima tornitore presso un'officina che produceva macchine e telai per tessuti, poi operaio meccanico alla Permaflex, in mezzo alle macchine che sfornavano i materassi a molle, per poi finire a progettare sedili, divani e poltrone.
Certo, con le nuove leve questi designer non ci vanno col guanto di velluto: «La preparazione è molto teorica, conoscono poco l'evoluzione del design italiano, sanno ben poco di storia dell'arte - affonda Gualtierotti - per non parlare poi dei prodotti storici del design anni '60 - '80. Tecnologicamente poi sono completamente acerbi». Stefano Giovannoni consiglia di «non limitare il proprio orizzonte ad ambiti troppo specifici», Piero Lissoni mette in guardia dalle "superstar mediatiche", «piccoli mostri che dopo pochissimo, due anni o due progetti, spariscono nel nulla» e invita i giovani a cogliere le tante occasioni di lavoro del mondo di oggi facendo uno sforzo di «qualità quotidiana di continuità del lavoro».
Una voce fuori dal coro è però quella di Giulio Iacchetti, uno dei più giovani designer intervistati nel libro (è nato nel 1966): «Si incontrano nella professione persone capaci che hanno avuto dei cattivi maestri e altrettante persone non brave che hanno avuto invece ottimi maestri. Arriva comunque il momento in cui l'allievo deve farcela da solo». Insomma, tutto sta nel talento e nella determinazione individuale: «Non mi piace sentir parlare di scuole di serie A e di serie B; se uno non ha la stoffa per fare il designer, non lo farà neanche se frequenta la Central St. Martins di Londra». Iacchetti poi suggerisce ai giovani di non puntare solo sulle grandi aziende di design: «Cercare un percorso standardizzato, del tipo diploma, laurea e poi tentare di lavorare per Cappellini, significa esporsi a un'alta probabilità di fallimento». E allora come muoversi per trovare la propria strada professionale? «Iniziare a guardare quello che succede sotto casa propria». Se da una parte quindi Iacchetti incoraggia i giovani a costruirsi il proprio percorso stando alla larga dagli schemi prestabiliti, dall'altra fustiga le scuole che crescono come funghi per succhiare soldi agli aspiranti creativi: «Si sta sviluppando un business intorno alla formazione nel campo del design: informarsi sugli effettivi benefits che ogni istituto vanta è un buon antidoto anti-fregatura» spiega, e conclude un po' indignato: «C'è una scuola di Milano che chiama i suoi studenti "clienti"!».
Ma a fare i designer, poi, si riesce a mettere insieme uno stipendio decente? A rispondere senza peli sulla lingua, pragmaticamente, è infine una donna, la bolognese Miriam Mirri: «Non si guadagna poi così tanto. Oppure si guadagna, ma dura poco. Dipende anche dal tipo di contratto, io lavoro quasi sempre con contratti a royalties, diritti d'autore, quindi guadagno in base alle vendite degli oggetti che entrano in produzione e che vengono veramente venduti. Però, se su sanno gestire un po' le cose, la libertà di movimento e le esperienze che si possono fare sono una vera fortuna».
Aspiranti designer avvisati, mezzi salvati.
Eleonora Voltolina
Community