Ottantuno anni: è quanto ci vorrà, secondo il nono Global Gender Gap Report, prima di raggiungere a livello mondiale la parità dei sessi sul posto di lavoro. E l'Italia è ancora ben lontana dall'obiettivo: in base al report, pubblicato oggi dal World Economic Forum, il nostro Paese si piazza al 69esimo posto su 142 nazioni per quanto riguarda la parità tra uomini e donne, guadagnando due posizioni rispetto al 2013.
Nel dettaglio l'Italia però resta indietro rispetto agli altri Paesi soprattutto per quanto riguarda la partecipazione delle donne all'economia, categoria in cui il nostro Paese scende al 114esimo posto: ancora peggio dello scorso anno, quando ci eravamo piazzati 97esimi. Siamo anche - tristemente - 88esimi per la partecipazione al mondo del lavoro e addirittura al 129esimo posto per quanto concerne la parità salariale.
Cioè ottenere paghe uguali a parità di qualifiche, indipendentemente dal genere: i dati dimostrano che la lotta delle donne per ottenere retribuzioni analoghe a quelle dei colleghi uomini è sempre attuale, nonostante le prime battaglie risalgano ormai a decenni fa. “We want sex equality” era lo slogan delle 187 operaie Ford di Dagenham, a est di Londra, che volevano avere lo stesso salario dei colleghi uomini e per questo, nel 1968, scioperarono. E proprio allo striscione sventolato dalle operaie inglesi si ispirava il titolo del convegno “We want sex (equality)”, organizzato qualche settimana fa a Milano nel corso della kermesse “Il tempo delle donne”.
In Italia la parità retributiva è infatti un tema di dibattito all’ordine del giorno: pur essendo un diritto garantito dalla Costituzione (l’art. 37 recita: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”), nella pratica il gap salariale tra uomini e donne è un dato di fatto. Secondo il rapporto 2014 sulla parità di genere pubblicato dalla Commissione europea, nel nostro Paese il divario tra le retribuzioni degli uomini e quelle delle donne è pari al 7%: una cifra inferiore alla media europea, che è del 16%, ma comunque ben lontana dallo zero che sancirebbe l’uguaglianza. In più, in Italia le donne lavorano meno degli uomini: solo una su due è occupata, contro una media Ue del 63%. La disparità occupazionale tra uomini e donne nel nostro Paese raggiunge il 21%, mentre la media dell’Unione è del 12%.
Eppure in Italia, nel lontano 1944, le operaie tessili del biellese ottennero per la prima volta un accordo che sanciva la parità di trattamento economico tra uomini e donne. Il cosiddetto “contratto della montagna”, questo il nome con cui passò alla storia, «fu firmato in piena guerra: industriali e operai si incontrarono prima nelle valli, clandestinamente, poi, a marzo del ’44, siglarono l’accordo», ha ricordato nel suo intervento al Tempo delle Donne Simonetta Vella, responsabile del centro di documentazione della Cgil di Biella. Il contratto, che riguardava un settore storicamente ad alta presenza femminile, prevedeva oltre alla parità salariale anche il diritto a lavorare 40 ore settimanali e alla maternità. Ma aveva un punto debole: era valido solo per le operaie in servizio al momento della firma. Negli anni, ha ricordato Vella, «si creò così una disparità tra le lavoratrici più anziane e quelle più giovani: finché nel 1963, grazie alla vertenza pilota intentata da una lavoratrice, venne sancito il diritto alla parità salariale per tutte le lavoratrici, che poi fu introdotto nel contratto firmato nel 1964».
Cinquant’anni dopo, le disparità sono ancora presenti: e il gender pay gap è solo una delle discriminazioni che le lavoratrici donne subiscono. «Valgono ancora alcuni stereotipi di genere», ha spiegato nel corso del convegno l’economista Luisa Rosti dell’università di Pavia: «come il fatto che alcuni lavori, come quelli di cura o la lavanderia, vengono considerati appannaggio delle donne, mentre ci sono pochissime donne che lavorano come taxiste o tecnici informatici». Inoltre «al crescere del prestigio dell’incarico, diminuisce il numero di donne che lo ricoprono: se le insegnanti degli asili nido sono praticamente per il 100% donne, tra i professori ordinari la percentuale cala al 20%». Non solo: «Gli uomini lavorano per il mercato, le donne per la produzione domestica: fare la pizza è un lavoro, ma se la fa la mamma è gratis», ha sottolineato la docente.
A causare disparità nelle retribuzioni sono poi alcuni atteggiamenti discriminatori, come il “maternal wall”. «Le madri sono giudicate meno competenti, meno adatte alle assunzioni, e ricevono proposte salariali più basse» ha sottolineato la docente: «Per i padri accade il contrario». Oppure il diffuso comportamento che si riassume con “Think manager, think male”: «Sulla base di un esperimento è emerso che lo stesso curriculum, ovviamente finto, inviato per una posizione manageriale è stato valutato il doppio se il nome era quello di un uomo. Per il ruolo di segretaria, invece, avviene l’esatto contrario». Le discriminazioni di genere, ha sottolineato la professoressa Rosti, «dipendono solo per il 12% da fattori spiegabili, mentre nell’88% dei casi avvengono appunto in maniera inspiegabile». La strada verso l’uguaglianza è ancora decisamente in salita.
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