La sfida più ardua del sindacato, rappresentare i lavoratori atipici

Ilaria Costantini

Ilaria Costantini

Scritto il 19 Feb 2014 in Articolo 36

Nell'era della precarietà, della frammentazione della produzione, del lavoro disperso e deregolamentato, su quali basi è ancora possibile costruire la rappresentanza dei lavoratori? Con questa domanda si confronta in "Organizziamoci! I giovani e il sindacato dei mille lavori" Ilaria Lani, giovane sindacalista della Filctem di Firenze che dal 2009 al 2013, da responsabile per le politiche giovanili della Cgil, ha sensibilmente contribuito a portare il tema della precarietà e dei diritti dei giovani lavoratori al centro dell'attenzione dell'opinione pubblica italiana. Al termine del proprio incarico - ora ricoperto da Andrea Brunetti - Lani stila con Articolo 36 un bilancio dell'esperienza maturata in questi anni di attività a diretto contatto con il lavoro atipico. Senza risparmiare critiche all'organizzazione, ma neppure ai giovani, delineando soprattutto alcune fattive proposte per il futuro. Come quella di investire il 5% del bilancio annuale del principale sindacato italiano per mettere in campo iniziative pensate proprio per  tornare ad organizzare i non organizzati.

Organizziamoci! analizza il rapporto tra giovani atipici e sindacato: una questione sufficientemente compresa nel dibattito pubblico di questi anni?
Si dicono spesso cose abbastanza superficiali a riguardo. C'è ad esempio l'idea che il sindacato rappresenti solo i "vecchi" quando  la Cgil conta in realtà molti giovani iscritti, il problema è che tra questi ci sono pochi precari.  Quello che secondo me non si è compreso fino in fondo sono le oggettive difficoltà che si incontrano a  sindacalizzare fasce di lavoratori inseriti in un mercato caratterizzato da precarietà, frammentazione e ricattabilità. In un simile contesto diventa difficile anche individuare i luoghi in cui i lavoratori possano socializzare bisogni e problemi: se oggi siamo una generazione che non si ribella,  disposta a tutto pur di lavorare, lo dobbiamo anche a questo. L'esperienza della campagna Non + è stata significativa in tal senso: ci siamo resi conto che tanti ragazzi riconoscevano i loro problemi come problemi degli altri, quindi si rispecchiavano. Ecco diciamo che questo rispecchiamento, che un tempo avveniva naturalmente all'interno dei luoghi di lavoro, oggi è molto più difficile.

Tu e gli altri autori non nascondete alcune critiche anche rispetto alle modalità con cui i sindacati, e nel caso specifico la Cgil, hanno affrontato la trasformazione dei rapporti di lavoro..

I cambiamenti intervenuti all'interno dei processi produttivi impongono al sindacato di ripensarsi, a partire dalle sue pratiche, che certamente ancora funzionano per una parte del mondo del lavoro, ma che per un'altra parte devono essere modificate. Non possiamo pensare di organizzare i freelance con le stesse modalità con cui si organizzano gli operai di una fabbrica. E se non si riescono ad organizzare le nuove figure lavorative diventa arduo rappresentarle. Il problema dell'organizzazione è poi strettamente connesso a quello delle priorità da dare alle rivendicazioni. Bisogna iniziare ad immaginare un sindacato all'altezza di sfide molto più difficili:  pensare ad esempio ad un'organizzazione di livello internazionale. Sono questioni che poniamo con chiarezza al sindacato, ma che rappresentano anche per noi un campo di riflessione e di sperimentazione.

Non esiste anche un problema legato alla rappresentanza interna al sindacato stesso, dove i giovani sono una minoranza?

Sebbene ci siano molti giovani che rivestono oggi  incarichi importanti all'interno della Cgil, non c'è dubbio che ci sia anche un problema legato alla sottorappresentanza. Il ricambio generazionale è certamente un altro tema da affrontare, in stretta connessione però con l'effettiva capacità di rappresentare nuove fasce del mondo del lavoro. È necessario che maturi una sensibilità nuova, che è più facile che i giovani abbiano, ma non necessariamente. La richiesta più forte che avanziamo non riguarda posti o poltrone, ma piuttosto che una quota del 5% bilancio annuale del sindacato venga investita proprio in progetti straordinari rivolti ad organizzare i non organizzati.

Avete già formalizzato questa richiesta?

L'abbiamo espressa pubblicamente e la stiamo formalizzando, anche in vista del prossimo congresso. Nessuno ci ha detto no, ma non è semplice ottenere uno spostamento di risorse. Ci sarà una battaglia da fare.

Il 5% non è molto: perché non chiedere di più?

Non stiamo ovviamente dicendo di spendere soltanto il 5% per i precari: si tratterebbe di risorse aggiuntive rispetto a quelle che ordinariamente vengono già spese, che avrebbero lo scopo di finanziare campagne e iniziative mirate a quei settori più difficili da raggiungere con gli strumenti tradizionali.

Un'altra proposta riguarda l'estensione dei contratti collettivi anche ai rapporti di lavoro autonomo.

Finora non è stato possibile raggiungere questo risultato: sia perché la controparte non ha voluto, ma anche perché c'è stata la paura di legittimare in questo modo situazioni di abuso. Queste resistenze vanno però superate. C'è una fetta molto ampia di lavoratori che oggi non hanno né un compenso minimo, né la possibilità di vedere regolamentati alcuni diritti di base come la maternità, il riposo, il trattamento di fine rapporto, ma anche piccole cose come un termine prestabilito entro cui ricevere i pagamenti. Quest'azione deve ovviamente procedere parallelamente a quella di contrasto agli abusi, ma mettere nero su bianco alcuni paletti potrebbe rendere la vita un po' meno difficile a molti freelance. Non si tratta di un obiettivo impossibile da raggiungere, dal momento che la stessa riforma Fornero prevede già che per i collaboratori a progetto i contratti nazionali regolamentino questi aspetti.

Accanto agli errori del sindacato anche i giovani hanno alcune responsabilità rispetto all'attuale crisi di rappresentanza del lavoro italiano?

Sì: molto spesso l'approccio rispetto al sindacato è di tipo utilitaristico, analogo a quello che si avrebbe con un ente pubblico, senza nessuna disponibilità ad impegnarsi, a spendersi in prima persona. Non penso che sia una colpa: i giovani sono probabilmente le prime vittime dell'estrema competizione che si respira oggi sui luoghi di lavoro e che rende più difficile la costruzione di quei legami di solidarietà che sono alla base dell'azione sindacale. Ma il sindacato non è il luogo in cui trovare necessariamente delle risposte, bensì lo strumento grazie al quale, attraverso una battaglia collettiva,  si riescono ad ottenere risposte.

Anche per questo che sono nati gli spazi dedicati ai giovani di Firenze, Enna, Bergamo, Padova, Lecce e Roma. Luoghi che ricordano le camere del lavoro alle origini stesse del sindacato. Qual è esattamente la loro funzione?

Queste esperienze nascono proprio con l'idea di coniugare alcuni servizi dedicati ai giovani con l'azione collettiva. Qui il nostro patronato offre servizi mirati per i precari, come quello per l'indennità di disoccupazione o per il controllo sui contributi versati. La Nidil effettua consulenze sui contratti; adesso abbiamo un nuovo servizio per le partite iva e poi c'è il Sol, per l'orientamento al lavoro. La persona che durante il giorno entra in questi luoghi per usufruire di un servizio è invitata magari a partecipare ad una riunione la sera, per costruire una campagna su uno o più temi che la riguardano. Un altro aspetto su cui abbiamo puntato è quello dall'aggregazione: organizzando iniziative culturali o semplici aperitivi si creano delle occasioni di incontro che sono la premessa per iniziare a costruire un percorso di presa di coscienza collettiva.

Nuovi spazi ma anche nuovi mezzi: nelle campagne che avete messo in campo quali strumenti si sono rivelati più efficaci?
Un ruolo fondamentale è stato svolto dalla comunicazione: se il luogo di lavoro non è più luogo di aggregazione, devi provare a costruire aggregazione con altre modalità. Ciò non vuol dire semplicemente usare il web o Facebook, ma utilizzarli provando a costruire identità, generalizzando e creando consenso intorno a determinate battaglie. Uno strumento che si è rivelato molto utile è stata l'inchiesta  - come quelle che abbiamo fatto utilizzando i questionari on line - che ci ha consentito di mappare bisogni ed esigenze sulla base dei quali costruire poi un'azione rivendicativa. Un aspetto ulteriore riguarda poi la costruzione del potere: se i lavoratori non hanno sufficiente forza, perché più ricattabili e dispersi, si cerca un'alleanza con l'opinione pubblica, provando a colpire - sia in negativo, ma anche in positivo - la reputazione dell'azienda, ad esempio denunciando pubblicamente determinate pratiche. 

In seguito a queste campagne quanto è aumentata la percentuale di atipici sindacalizzati?

Se parliamo solo in termini di iscrizioni, i risultati non sono incoraggianti. Bisogna però considerare il carattere sperimentale e non continuativo delle iniziative - molte delle quali erano orientate soprattutto alla sensibilizzazione - e poi la necessità di costruire con questi lavoratori un rapporto di fiducia, che non consente di avere risultati immediati.  Questi anni sono stati per noi di sperimentazione, in cui abbiamo provato a fare cose innovative tanto rispetto agli strumenti che rispetto al rapporto con l'organizzazione. La seconda fase dovrà essere di consolidamento:  vorremmo che alcune pratiche da straordinarie divenissero ordinarie, che si provasse ad esportarle in altri settori, che servissero come base per costruire sbocchi più concreti anche in termini contrattuali, dando una rappresentanza continuativa al mondo del precariato. Sono convinta però che rispetto al passato oggi possiamo contare non solo su una sensibilità nuova da parte dell'opinione pubblica, ma anche su un bacino di centinaia di migliaia di atipici che, se nell'arco dei prossimi tre quattro anni riuscissimo ad organizzare, potrebbero cambiare radicalmente il volto del sindacato.

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