Tanti sogni, un solo obiettivo: mettersi a servizio degli altri e impegnarsi per tutelare i diritti umani. Il percorso? Una laurea, un master, diversi corsi di lingua, uno stage. E poi? Un lavoro per potersi mantenere durante l’ennesimo stage o volontariato non retribuito. Questo è il destino di tanti giovani italiani alla ricerca di un’organizzazione non governativa, di un’associazione, di un ente disposto ad accoglierli. Un amaro risveglio per tanti giovani laureati che ogni giorno finiscono per accettare stage privi di compenso in associazioni e organismi con fini di solidarietà sociale e sviluppo, nella speranza di vedersi riconosciuto un giorno il diritto ad essere pagati. Come funziona il no profit in Italia? E quale peso ha nel sistema produttivo nazionale?
Il No profit in Italia
Il no profit è disciplinato dal decreto legislativo 4 dicembre 1997 n. 460. L’articolo 10 afferma che «sono organizzazioni non lucrative di utilità sociale (onlus) le associazioni, i comitati, le fondazioni, le società cooperative e gli altri enti di carattere privato». Si tratta di una definizione ampia che comprende anche le organizzazioni di volontariato iscritte nell’apposito registro regionale e le organizzazioni non governative (Ong) riconosciute idonee dal ministero degli Esteri e le cooperative sociali. Nello specifico queste ultime, per essere riconosciute dal Ministero e per operare nel campo della cooperazione, devono soddisfare determinati criteri elencati dalla legge 49/187. E’ bene ricordare inoltre che le Ong operano principalmente a livello internazionale in Paesi in via si sviluppo a differenza delle associazioni che invece concentrano la loro azione a livello nazionale.
Il peso del No profit nell’economia nazionale
Secondo l’ultimo Censimento dell’industria e dei servizi, pubblicato dall’Istat nel 2011, le istituzioni no profit e gli enti senza scopo di lucro e con natura privatistica sono più di 300mila. All’interno di tali organizzazioni i lavoratori temporanei ed esterni corrispondono rispettivamente a 5mila e 270mila, a fronte di 680mila lavoratori dipendenti e di quasi 5 milioni di volontari impiegati in settori diversi. Il rapporto Cooperazione, non profit e imprenditoria sociale: economia e lavoro 2014, curato da Unioncamere-Si.Camera, ha evidenziato inoltre come il peso occupazionale delle istituzioni no profit nel sistema produttivo nazionale sia aumentato rispetto al 2001, anno del secondo censimento. Secondo quest’ultimo, infatti, «i lavoratori esterni rappresentano oltre un terzo del totale nazionale comprensivo della sfera privata e pubblica oltre a quella no profit». Negli ultimi dieci anni l’inclusione sociale e i servizi hanno impiegato figure professionali diverse e gli addetti sono così passati da 488mila a più di 680mila unità.
La crescita del no profit ha incrementato il suo peso del settore nell’economia nazionale arrivando a rappresentare il 6,4% dell’economia nazionale, con 65mila unità attive in più rispetto al 2011. Ma bisogna anche considerare che negli ultimi dieci anni sono aumentate le istituzioni che impiegano lavoratori esterni - 36mila nel 2011 contro 17mila nel 2001 con un incremento del numero di collaboratori del 169,4% - e che al contempo si è registrato un moderato aumento delle istituzioni con addetti con una crescita del personale dipendente pari al 39,4%. Un risultato che trova una spiegazione nella precarietà dei progetti gestiti su base annuale a seconda dei finanziamenti e coordinati da figure professionali spesso inquadrate con contratti a progetto o altre forme di collaborazione.
Nonostante la crisi abbia avuto un notevole impatto sul funzionamento di tali enti, considerato che i loro fondi sono costituiti da donazioni private e finanziamenti pubblici, il settore continua a richiamare figure professionali di alto livello alle quali, peraltro, nella maggior parte dei casi non vengono riconosciuti una retribuzione equa e un corretto inquadramento contrattuale.
Stage negli enti no profit: il miraggio del rimborso spese
In un mondo globalizzato, il settore no profit risulta essere dunque in crescita. I servizi forniti spesso fungono da compensatore rispetto alle lacune del welfare, e stando al Rapporto Almalaurea pubblicato nel 2013 impiegano attualmente il 7% dei laureati. Nessun rapporto censisce però quanti stagisti vengano ospitati all’interno di organizzazioni no profit. La Repubblica degli Stagisti già nel 2012 aveva posto all'ordine del giorno questo problema, stimando per parte sua che nelle oltre 200 mila associazioni esistenti gli stagisti fossero più di 60mila. I dati si riferivano al Censimento generale dell’industria e servizi realizzato dall’Istat nel 2001. Considerato che oggi gli enti no profit sono più di 300mila il numero degli stagisti potrebbe aggirarsi sui 90mila all’anno.
I giovani laureati, attratti dai principi e dai valori propugnati da tali associazioni, si affacciano nel settore allo scopo di promuovere la cultura, attività sportive, ricreative, di sostegno agli anziani e alle famiglie e nel settore della sanità, spesso in grande buona fede e non completamente consapevoli che la gavetta sarà, nella maggior parte dei casi, caratterizzata da stage non retribuiti e lunghi periodi di volontariato full time. Peraltro in realtà l’art. 2 della legge 266/91 afferma che per volontariato «deve intendersi quella prestata in modo personale, spontaneo e gratuito, tramite l'organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà».
Gli annunci: stage gratuiti in associazioni
Eppure basta accedere alla sezione lavora con noi per rendersi conto che per potersi occupare di diritti umani bisognerà rinunciare ai propri. Ecco due esempi, assolutamente casuali, per descrivere la situazione che accomuna decine di migliaia di soggetti che fanno parte della galassia del no profit.
Un'associazione che tutela i diritti dei bambini offre tantissimi stage, tutti «full time» e tutti rigorosamente «gratuiti» (anche definiti, in maniera impropria, «non retribuiti»). Spesso negli annunci viene specificato che sarà data precedenza a chi ha una determinata laurea, oppure esperienze pregresse nello stesso campo, oppure una conoscenza approfondita di una certa lingua. Insomma, skills che si richiedono solitamente a chi si candida per un lavoro - non per un'esperienza di formazione on the job. Peraltro negli annunci dell'Aibi come di moltissime altre associazioni spesso viene specificato che un periodo di volontariato svolto in precedenza può aiutare il candidato a essere selezionato. Ecco allora che si mette in moto un meccanismo malato, per cui donare il proprio tempo per motivi solidaristici si trasforma nell’unica possibilità di poter poi sperare di entrare - ovviamente attraverso uno stage - in una determinata realtà non profit.
Un altro esempio: MArteLive, l'associazione culturale no-profit Procult, ha pubblicato nelle scorse settimane un annuncio su molti siti specializzati, tra cui Bakeca.it, annunciando di cercare «urgentemente» un/a stagista under 35 da inserire nel progetto MarteCard. Come «urgentemente»? Il carattere di urgenza è completamente incompatibile con la finalità dello stage, che è quella di realizzare un percorso formativo esclusivamente a vantaggio del tirocinante. Se qualcuno ha bisogno «urgente» di un collaboratore dovrebbe aprire una posizione di lavoro, non di stage. Invece qui gli annunci segnalano che «lo stage è di 3/6 mesi e non è retribuito» aggiungendo a mò di contentino che «per chi fosse interessato esiste l'opportunità di acquisire crediti formativi e l'attestato di Stage per il progetto biennale MArteLive 2014 e di diventare collaboratori di riferimento per MarteLive». Dopo aver prestato per mesi servizio gratuitamente, però.
Lo stage prima della laurea
All’interno delle università la situazione non cambia. A spiegarlo è Paolo De Stefani, ricercatore e professore aggregato di diritto internazionale presso la facoltà di scienze politiche dell'u\niversità di Padova: «Per gli studenti non ci sono borse in generale e quindi nemmeno per il sostegno ai tirocini, in materia di diritti umani o altro. Gli stage universitari sono quasi per definizione non retribuiti, anche se sarebbe buona prassi prevedere qualche forma di rimborso. Il settore dei diritti umani non fa eccezione». Secondo il docente, ma sembra più un auspicio che una constatazione, «Chi opera in questo settore tende a essere più attento a fenomeni di "sfruttamento" che possono coinvolgere lo stagiaire o altri collaboratori delle strutture ospitanti». Ma la situazione anziché migliorare sta peggiorando: «Negli ultimi anni la disponibilità di enti pubblici o privati a corrispondere rimborsi o pocket money è diminuita, così come si è ristretta la possibilità di accedere a stage dopo aver conseguito la laurea. Bisognerebbe utilizzare meglio l'opportunità di abbinare lo stage universitario con programmi che prevedono delle borse. Per esempio, far riconoscere come stage il servizio civile nazionale o regionale, abbinare stage universitario e esperienze a programmi di mobilità internazionale: il servizio volontario europeo, una sperimentazione è stata avviata in questi anni a Padova, o il programma Gioventù in azione - dal 2014 confluito nel programma Erasmus+. Gli studenti - e le università, naturalmente - dovrebbero meglio organizzarsi per cercare opportunità di finanziamento presso istituti, fondazioni, sia italiane sia straniere. Ciò non esenta le università dal cercare di attuare accordi ad hoc con fondazioni bancarie o aziende dedicate a finanziare, tra l'altro, le internship presso organismi privati o pubblici attivi sui diritti umani o materia connesse» conclude De Stefani.
Il tabù italiano
A fronte della frequentissima negazione di un compenso, si può dire insomma che i giovani che aspirano a una carriera nel no profit abbiano accettato lo status quo, prendendo per buona la risposta standard che le associazioni utilizzano per giustificare gli stage gratuiti e i compensi molto bassi ai collaboratori: «abbiamo pochi soldi, non si può pretendere di essere pagati, altrimenti si toglierebbero soldi alle opere di bene». Ma è davvero così? Quanti sono i fondi che effettivamente ricevono tali associazioni?
É possibile che nemmeno le Ong riconosciute dal ministero degli Esteri e spesso destinatarie di fondi pubblici non siano in grado di pagare i loro stagisti? Parlare di questo in Italia è tabù. L’anno scorso infatti la pubblicazione del libro-denuncia L’industria della carità di Valentina Furlanetto ha sollevato un polverone. Senza voler screditare il lavoro del mondo della solidarietà molto attivo e fruttuoso in Italia, è difficile non ammettere che il no profit sia molto meno controllato del profit - anche considerando che le Odv e le Ong con proventi inferiori a 51mila Euro non hanno l’obbligo di presentazione dei loro bilanci. La Furlanetto in un’intervista al quotidiano La Repubblica aveva richiamato l’attenzione sulla relazione della Corte dei Conti del 2012, ricordando gli ottantaquattro progetti analizzati dalla Corte dal 2008 al 2010, da cui è emerso che spesso i fondi non sono arrivati a destinazione, i rendiconti sono spariti e i progetti sono rimasti fermi.
Nebbia fitta dunque per i giovani italiani che desiderano lavorare nel settore, in attesa di una normativa chiara ed efficiente capace di distinguere tra volontariato e stage, tra diritto al rimborso spese e utilizzazione dei fondi per scopi solidaristici. Questo non succede solo in Italia - dove peraltro nel corso del 2013 sono entrate in vigore in quasi tutte le Regioni italiane nuove normative in materia di stage che almeno per quelli "extracurriculari" prevedono l'obbligo di corrispondere un compenso mensile (tra i 300 e i 600 euro a seconda della Regione), obbligo cui devono assoggettarsi anche gli enti no profit - bensì anche all’estero. Nel prossimo articolo la Repubblica degli Stagisti andrà a indagare la situazione nelle le sedi del no profit per antonomasia: Bruxelles, Ginevra e New York.
Alessia Bottone
Per saperne di più su questo argomento, leggi anche:
- Lavoro e volontariato, dove sta il confine?
- La lista dei tirchi: la "black list" degli organismi internazionali che non pagano gli stagisti
- Mae-Crui, la vergogna degli stage gratuiti presso il ministero degli Esteri: ministro Frattini, davvero non riesce a trovare 3 milioni e mezzo di euro per i rimborsi spese?
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