“Rivendichiamo tre diritti per i giovani italiani: poter partire, poter restare, poter tornare”

Eleonora Voltolina

Eleonora Voltolina

Scritto il 26 Apr 2019 in Interviste

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Delfina Licata è una delle persone che conoscono più in profondità il fenomeno migratorio italiano. Dal 2006 anni cura un Rapporto annuale dedicato agli italiani nel mondo prodotto dalla Fondazione Migrantes, organismo pastorale della Cei (la Conferenza Episcopale Italiana). La settimana scorsa era a Palermo per una delle sessioni di lavoro del Seminario per la creazione di una rete di italiani del mondo, voluto dal Cgie, il Consiglio generale degli italiani all'estero, e in particolare da Maria Chiara Prodi per valorizzare l’enorme patrimonio – cinque milioni di persone, considerando solo quelle “ufficiali” cioè iscritte all’anagrafe dei residenti all’estero – di italiani fuori dall’Italia.
Al Seminario hanno partecipato 115 giovani delegati provenienti da tutto il mondo: sia espatriati di recente (la cosiddetta “nuova emigrazione”) sia figli di emigrati di lungo corso (le “seconde e terze generazioni”). Alla fine del suo intervento Licata ha lanciato la sfida sui tre diritti che bisognerebbe garantire a tutti i giovani italiani: quello di poter partire, quello di poter restare in Italia, e quello di poter tornare indietro dopo un’esperienza all’estero.

Come è cambiato il Rapporto italiani nel mondo in questi  anni?
delfina licata italiani estero expatIl rapporto è presente sul panorama culturale italiano da tredici anni; la prima edizione, nel 2006, era stata richiesta come strumento di sensibilizzazione alla materia immigratoria, quindi “ricordando” agli italiani il loro passato emigratorio per poter approfondire il discorso dell’incontro di culture diverse. Quell’edizione era di poco più di 300 pagine e l’occhio era più rivolto al passato, come se fosse un fenomeno ormai da considerare nella lontana memoria. Invece i flussi continuavano e abbiamo pensato che valesse la pena di approfondire la ricchezza della mobilità italiana attuale. Ci siamo resi conto che non si poteva parlare solo di numeri ma bisognava vedere anche l’ottica storica, la geografia, la musica, la pittura, l’enogastronomia, tutte quelle sfaccettature che rendono la complessità e varietà della mobilità italiana. Con le parole chiave della transnazionalità e della biunivocità: cioè vedere il fenomeno non solo dall’Italia ma anche dall’estero, e mettere in dialogo gli italiani nei diversi luoghi del mondo in cui sono. Da lì il volume si è ampliato di tematiche e di argomenti, fino ad arrivare alle 536 pagine dell’ultima edizione, che sono anche sinonimo di una varietà di metodologie che abbiamo dovuto individuare proprio perché ci siamo resi conto che le fonti ufficiali sulla mobilità italiana sono molto carenti.

È facile, e anche in questo seminario di Palermo è uscito molto, tracciare una differenza netta tra la vecchia emigrazione – quella dell’inizio del Novecento verso il Sudamerica, oppure negli anni Sessanta verso il centro Europa – e l’emigrazione di oggi, quella dei nostri ragazzi che partono col trolley, hanno Skype e i voli lowcost. Ma invece tra l’emigrazione del primo Rapporto e quella di oggi ravvisate differenze? In soli tredici anni avete rilevato delle modalità e profili diversi?
Sicuramente sì. In numeri assoluti oggi partono sopratutto giovani e giovani adulti, quindi dai 18 ai 35 anni: adesso abbiamo anche molti giovanissimi che vanno a concludere un percorso di studio oppure che si specializzano subito dopo, mentre prima partivano sopratutto tra i 25 e i 35 anni.

Quindi si parte prima.
Sì. E addirittura molti sono minori perché a partire sono i nuclei familiari. Degli oltre 128mila partiti nell’ultimo anno 24mila sono minori, quindi vuol dire che sono minori che partono al seguito della famiglia, dei genitori.

Questo può dipendere anche dal fatto che in Italia non ci sono grandi politiche per la famiglia e per la conciliazione vita-lavoro?
Da una parte sì, ma quello che vediamo affiancando alla questione statistica la metodologia qualitativa, quindi le interviste, è che effettivamente in questo momento le necessità economiche spingono l'intero nucleo familiare a un percorso migratorio – e questo elemento in realtà ci porta alle vecchie emigrazioni, quando era tutta la famiglia che si spostava. Che cosa accade però oggi? Che le famiglie d’origine, che prima rimanevano in Italia aiutando magari economicamente i figli nei periodi di mobilità, oggi sperimentano anche loro il processo migratorio.  Soprattutto quando i bambini sono al di sotto dei dieci anni, finiscono per essere i babysitter nei luoghi di emigrazione.

Quindi questi nonni seguono figli e nipoti.
Sì; prima per periodi di tre mesi, sei mesi, poi sempre più lunghi, fino a volte al completo trasferimento. Una delle tendenze di quest’ultimo anno è proprio questo trasferimento anche dei genitori proprio di supporto alle famiglie giovani, sopratutto ai nipoti non ancora in età scolare.

Molto spesso l’emigrazione è spinta dal cercare un’opportunità di lavoro. Qual è a spanne la percentuale, dei 128mila per esempio dell’anno scorso, che parte per motivi professionali?
La maggior parte dei giovani, quindi di quel 37% di coloro che si sono spostati in età di lavoro, lo ha fatto per motivi di lavoro.

Dunque quasi tutti coloro che partono in età lavorativa, giovani e giovani adulti, partono di fatto perché trovano migliori condizioni lavorative all’estero che in Italia.
O le trovano… o le cercano! Oppure vogliono specializzare all’estero, quindi vivono il percorso migratorio per completare gli studi o per approfondire il percorso professionale. La motivazione è sempre il lavoro, o comunque la riuscita professionale. Però poi quando li vai a intervistare vis-à-vis vedi che il motivo “lavoro” va declinato ancora una volta e porta al piano personale, perché il fatto di stare bene a livello professionale ti porta a stare bene a livello identitario, a livello proprio di realizzazione di sé stessi.

Una cosa che si dice spesso è che è uno spreco perché abbiamo i nostri laureati che vanno a fare i camerieri a Londra. C’è una risposta a questa obiezione?
Da parte del migrante sì. Perché il ragazzo dice: Sì, è uno spreco perché ho una laurea – magari in biologia – però se fossi rimasto in Italia a fare il biologo sarei stato un biologo infelice e soprattutto non avrei fatto la professione con la stessa cura con cui sono commesso o barista. Intendo dire che se magari all’estero si finisce per fare un lavoro dequalificato rispetto al titolo di studio preso, la parolina magica è quella della meritocrazia: si trova meritocrazia in un lavoro dequalificato, fuori dai confini nazionali, rispetto a quello che fino a quel momento è stato fatto in Italia.

C’è anche un aspetto di transitorietà? Cioè l’idea che non facciano i baristi per sempre.

Sì, infatti io parlo di “mobilità precaria”, di persone “stabilmente in movimento”: perché non si ha l’idea di essere arrivati
a Londra, poniamo, e di doverci rimanere per sempre. Proprio l’opportunità che ti crea la conoscenza di altre reti, altre persone, o anche la conoscenza stessa di sé stessi rispetto a quella realtà, ti porta a cercare elementi differenti. Anche, che ne so, il clima: non mi sento idoneo per il clima di Londra, me ne vado a Barcellona. E di conseguenza cerco anche una realtà professionale che mi renda più felice. Per cui da barista posso passare a fare la commessa o viceversa per poi arrivare, se ho la fortuna di avere un processo di mobilità vittorioso, a fare una professione per la quale ho studiato. Ma non è una necessità avvertita. Il desiderio è quello di una realizzazione di sé stessi che passa anche per una retribuzione idonea e di un rispetto per sé e per la propria professionalità - qualsiasi sia la professione che si fa.

Si dice che dopo il quinto anno nello stesso posto le probabilità di tornare in Italia si riducano drasticamente…

Questo è vero, ma non solo di tornare in Italia: in realtà proprio di continuare ad essere in mobilità. Però in altri contesti ci siamo resi conto di come la mobilità determini anche un modo di vivere, cioè persone che sono abituate alla mobilità cercano di non fermarsi, perché fermarsi significa smettere di arricchirsi, di esporsi al confronto con culture altre.

Per i giovani italiani vanno rivendicati tre diritti, quali?

Il diritto di partire, proprio perché il confronto con un’altra cultura è di arricchimento personale, indentitario, di realizzazione di sé a 360 gradi. Il diritto di restare in Italia, per chi valuta di non voler partire e vuole rimanere, con tutte le difficoltà del caso, nel suo Paese. E il diritto di tornare: perché se io sono all’estero e voglio ritornare devo poter scegliere di farlo. La mobilità in sé è una ricchezza, ma in questo momento il problema è che in Italia la mobilità è unidirezionale: cioè si deve partire per forza, è una necessità, e non si può scegliere di ritornare. Il vero processo di mobilità avviene quando la mobilità è circolare, quindi alle partenze corrispondono i rientri. In questo momento in Italia non è così.

Cosa si può fare per trasformare questi diritti in proposta politica e quindi in diritti effettivi?
Noi abbiamo creato una rete che, attraverso i convegni, cerca appunto di sensibilizzare  a questo tema. Il Rapporto che era un progetto culturale diventa anche un manifesto di intenti per tutte le persone che partecipano, e noi continuiamo a proporlo sperando che ci sia la possibilità…

...che le orecchie delle istituzioni e della politica siano aperte.
Eh, sì. Alla presentazione nazionale c’è sempre la rappresentanza del ministero degli Affari esteri, il ministero dell’Interno collabora con noi con i dati, e noi abbiamo proposto per esempio una trasformazione dell’Anagrafe degli italiani residenti all’estero.

Ci sarebbe bisogno di una riforma dell’Aire?
E’ fondamentale. Perché parlavamo di precarietà della mobilità, e c’è una forma di statisticazione molto ormai desueta, che dovrebbe essere riformata per poter fotografare la situazione e le necessità della mobilità di oggi.

intervista di Eleonora Voltolina

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