«L'articolo incriminato è del tutto privo di portata diffamatoria. Inoltre il contenuto complessivo del testo, per veridicità della notizia, rilevanza pubblica e rispetto di limiti di continenza, appare immune da rilievi sul piano della illiceità penale (cfr memoria difensiva nell'interesse della indagata Voltolina Eleonora, che qui si intende integralmente richiamata e pienamente si condivide)».
Ci sono nel mondo due tipi di giornalisti. Quelli che trattano argomenti neutri, scrivendo cose più o meno importanti, ma senza conflitto. I loro articoli possono piacere o a volte non piacere, in qualche caso far storcere il naso, ma non feriscono e non scatenano sentimenti di rappresaglia. Sono articoli che raccontano fatti di cronaca, o di costume, o di spettacolo, o di sport, o di ogni altro argomento dello scibile umano «notiziabile».
C'è chi fa questo tipo di giornalismo meglio e chi peggio, come in tutti i mestieri: in ogni caso, esso è essenziale per informare, approfondire, divertire. Dirò di più: spesso è proprio grazie a questi articoli che si vende un giornale, o che una trasmissione ottiene il top di share.
Poi ci sono i giornalisti che fanno le inchieste. E le inchieste, da quelle grandi stile Report a quelle piccole dei giornali di provincia, hanno un obiettivo: far emergere una situazione critica. Anche qui ovviamente c'è chi fa questo mestiere bene e chi lo fa meno bene: c'è chi spinge sull'acceleratore del patetismo e chi invece si limita a lasciar parlare i fatti; c'è il giornalista che si vuole mettere in mostra, ed essere la primadonna della sua inchiesta, e quello che invece sta dietro e lascia la parola ai testimoni e il commento agli esperti.
In ogni caso di solito chi è - o appare - responsabile della situazione critica non è contento che l'inchiesta venga pubblicata, o vada in onda. Al giornalista scrupoloso sta il dovere di offrire a tutte le parti la possibilità di spiegare le proprie posizioni e punti di vista: spesso però questa offerta viene rifiutata, e allora si pubblica quello che c'è.
Capita che dopo la pubblicazione, talvolta molto dopo, talaltra addirittura prima, la controparte metta in atto delle azioni per dissuadere la testata dal proseguire questa o quella inchiesta, minacciando azioni legali e richieste di risarcimento come una spada di Damocle.
Dunque chi fa le inchieste deve non solo trovare le notizie, verificarle dieci volte più degli altri, e dieci volte più degli altri fare attenzione al rigoroso rispetto dei limiti di pertinenza, continenza e interesse generale nella costruzione del suo lavoro. Deve anche continuamente difendersi da minacce esplicite e implicite.
Quando ho cominciato a fare la giornalista, ho avuto ben chiaro che la mia via sarebbe stata quella più accidentata. Che avrei dato fastidio e che avrei subito pressioni.
Non è un giudizio di merito, una classifica di giornalisti più o meno bravi, più o meno utili. Ci vogliono in un sistema mediatico - e allargando lo sguardo: in un paese democratico - gli uni e gli altri: per soddisfare le esigenze di tutti i lettori, dare la notizia del ritorno di Kakà al Milan con tutti i retroscena e i commenti dei notabili del calcio, e dare però anche quella dei rifiuti tossici seppelliti in Campania o del concorso truccato attraverso cui un ospedale ha nominato primario un incapace, però raccomandato. Un giornalista è sempre un giornalista, deve svolgere il suo lavoro secondo il codice deontologico sia che intervisti George Clooney sia che raccolga la testimonianza di un immigrato clandestino messo a lavorare in nero in qualche campagna. Ma obiettivamente, purtroppo, chi fa giornalismo d'inchiesta si espone di più. E qui, attenzione, mi limito a parlare delle forme di pressione per bloccare il lavoro di un giornalista che si collocano nel perimetro della legalità; e tralascio, perché sarebbe un argomento troppo lungo e importante per poterlo riassumere in poche parole, il caso di minacce illegali, intimidazioni, agguati cui tanti giornalisti sono sottoposti, specialmente tra quelli che scrivono di criminalità organizzata. Mi concentro quindi solo su quelle azioni che stanno nel grande insieme delle «minacce di querela» e che, se approdano in un'aula di tribunale, tecnicamente vengono definite «liti temerarie».
Ricordo bene la prima trafila di minacce che scaturì da un articolo, pubblicato nella sezione «Help» della Repubblica degli Stagisti. Ricordo il cuore in gola ricevendo le telefonate ed email di minaccia, la consapevolezza di aver toccato un nervo scoperto ma la determinazione a non recedere. Ricordo le rassicurazioni ai collaboratori. Ricordo l'ansia della prima lettera di minaccia di querela per diffamazione a mezzo stampa vergata da un avvocato, step 2 del climax delle pressioni, con una richiesta di risarcimento a quattro zeri se non avessimo immediatamente cancellato dal sito gli articoli sgraditi: richiesta rimandata al mittente, affidandoci a un studio legale esperto che ancora ci segue in queste vicende. Oggi la scorza è più dura, e una telefonata minatoria o una lettera mellifluamente minacciosa di un avvocato scivolano addosso con più facilità: ma beninteso, non sono mai piacevoli da ricevere.
È però utile sapere che la particolarità delle minacce di querela è che... Raramente si trasformano in querela. La maggior parte delle volte, per fortuna non solo dei giornalisti ma anche dei tribunali oberati di lavoro, le minacce restano minacce. Svelandosi per quello che sono: semplici tentativi "o la va o la spacca" di non far uscire una notizia sgradita. Perché per portare un caso in tribunale bisogna avere qualche prova concreta: che appunto la stragrande maggioranza delle volte manca a chi accusa. Le minacce assumono quindi una doppia essenza quasi paradossale; da una parte sono pesanti e ancor più odiose, in quanto concretamente - come ha sostenuto recentemente anche l'associazione Articolo21 - sono degli atti intimidatori per impedire a un professionista di portare a termine il suo lavoro. Ma dall'altra sono anche leggere, quasi evanescenti: perché lasciano il tempo che trovano, secondo il detto dei cani che abbaiano molto ma che poi non mordono.
Qualche minaccia, però, diventa realtà. Questo accade di solito in due casi - a volte sovrapposti, a volte no. Il primo è quello di una controparte potente. Una persona abbiente, un'azienda con un ufficio legale pagato in pianta stabile. Qui il meccanismo é semplice: la causa parte perché la controparte non ha problemi di denaro, e può sostenere le spese legali di una controversia, anche se con possibilità minime di successo. Il secondo caso è quello che ci siano, in effetti, elementi diffamatori nel prodotto giornalistico contestato; elementi evidenti e rilevanti, che permettono a chi si sente diffamato di avere la ragionevole aspettativa di vedersi riconosciuta in tribunale la ragione, magari anche con un risarcimento economico.
Facendo questo lavoro si scopre presto che si tratta di una piramide rovesciata, o meglio, di un imbuto. Per 1000 minacce arrivano 100 lettere di avvocati, per 100 lettere di avvocati arrivano 10 querele. E poi le querele possono prendere due strade: essere archiviate, il che vuol dire che il pm e poi il giudice chiamati a valutare la consistenza delle contestazioni si convincono senza ombra di dubbio che non c'è ragione di procedere contro la testata; oppure possono arrivare al rinvio a giudizio. In questo secondo caso, col rinvio - quando il giornalista da «indagato» diventa «imputato» del reato di diffamazione - comincia il vero e proprio processo, in cui ognuno porta le sue prove. Il giornalista e l'editore ovviamente vengono chiamati a giustificare la correttezza del loro lavoro, e poi il giudice decide, emettendo la sua sentenza di condanna o di assoluzione.
Quel che è successo a me finora, in sette anni di professione, è di aver ricevuto decine di intimidazioni, minacce, richieste di non pubblicazione o di cancellazione. Solo una volta ho dovuto accondiscendere a cancellare un'inchiesta già pubblicata, e detto per inciso: non perché avessimo torto, tutto quel che era riportato negli articoli contestati corrispondeva a verità; semplicemente, purtroppo, non avevamo più la documentazione, le «pezze d'appoggio» come si dice in gergo, perché erano passati anni dalla messa online e avventatamente non le avevamo mantenute nel nostro archivio. Lezione che ci é servita, perché oggi non gettiamo via nemmeno più un singolo appunto.
Tutte le altre richieste pervenute in questi sette anni alla redazione della Repubblica degli Stagisti, ora allargata con la nascita di Articolo36 e di NextHR, sono state sempre sistematicamente rimandate al mittente, con la consapevolezza di essere in grado, in caso di querela, di difendere fino all'ultimo il nostro operato giornalistico di fronte ai giudici.
Delle decine di minacce ricevute, una sola si è tramutata in reale querela. Per evitare di rinfocolare la polemica, evito qui di fare riferimento esplicito all'articolo "incriminato", e mi limito ad essere contenta, molto contenta di quelle tre righe che accompagnano la richiesta di archiviazione scritta dal pm e accolta dal giudice, e che ho riportato in testa a questo articolo. Quelle tre righe sono un balsamo per tutte le ore passate a vivisezionare gli articoli per controllare l'appropriatezza di ogni parola e la fondatezza di ogni affermazione, scrivere memorie difensive, fare riunioni con gli avvocati.
Ma attenzione. Avere ottenuto ragione, per la nostra testata giornalistica, ha avuto un costo. Un costo umano: resistere alle pressioni, mantenere la calma. Un costo professionale: utilizzare ore del proprio lavoro per difendere il proprio operato passato, anziché lavorare sugli articoli futuri. E un costo economico: perché giustamente gli avvocati vanno pagati.
Ma se una testata non ha grande forza umana, resistenza professionale, solidità economica, che fine fa? In effetti, più una testata è piccola ed economicamente debole, più è esposta e vulnerabile rispetto alle minacce. Con il risultato prevedibile che alla prima lettera di un avvocato correrà ai ripari, sospendendo il lavoro del giornalista o cancellando l'articolo sgradito; e per il futuro cercherà di limitare al minimo le inchieste, e quando le farà, si accerterà di spuntare le unghie in modo che graffino il meno possibile.
Come ripristinare una situazione accettabile, con il giusto bilanciamento tra il diritto alla privacy e alla reputazione e quello all'informazione? Per esempio prevedendo pene severe per le querele temerarie, sia in caso si vada in giudizio e il processo finisca con l'assoluzione del querelato, sia in caso al dibattimento non ci si arrivi neppure, perché la querela - come in questo mio caso - viene archiviata.
Il malcostume tutto italico della minaccia «Vi querelo!» usata per paralizzare l'attività giornalistica può essere stradicato infatti solo introducendo pene pecuniarie molto elevate per chi porta inutilmente in tribunale una testata giornalistica, con il preciso intento di impedirle di fare il suo mestiere. E che queste somme non vadano alla "cassa delle ammende", bensì direttamente alle testate chiamate incautamente in giudizio, per ripagarle del danno subito e renderle un po' più forti - e in grado di difendersi - in vista del successivo attacco.
La libertà di stampa, in un Paese, si misura anche da questo.
Eleonora Voltolina
Per saperne di più su questo argomento, leggi anche:
- Nasce Articolo36: una testata online dedicata al lavoro precario, sottopagato, gratuito
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