Il Gruppo Controesodo lancia l'allarme: “Non basta far rientrare gli expat, bisogna anche convincerli a rimanere”

Antonio Piemontese

Antonio Piemontese

Scritto il 21 Apr 2019 in Interviste

Expat opportunità all'estero

Convincere chi è fuggito all'estero a tornare in Italia: questo è l'obiettivo delle misure che incentivano il rientro dei cervelli a livello fiscale. A partire dal 2010, con la legge Controesodo, questi provvedimenti hanno portato secondo gli ultimi dati disponibili diffusi dal Ministero dell'Economia, relativi al 2017, al rientro di circa 8.500 laureati.
E c'è una community per chi è tornato o vuole rientrare in Italia
: il Gruppo Controesodo. Michele Valentini, 39 anni, un lavoro nell'ambito dei derivati per un grande gruppo bancario e otto anni in UK, rientrato in Italia nel 2013, ne è il portavoce. Attorno alla pagina Facebook e al sito web si sono raccolti circa dodicimila «impatriati», come il lessico della burocrazia definisce chi decide di salire sul volo di ritorno per il Belpaese.
Il gruppo esiste dal 2015: in quell'anno il governo Renzi aveva abrogato la legge 238/10 e approvato un decreto legislativo sostitutivo, il 247/15. Da allora, il gruppo Controesodo ha seguito tutti gli sviluppi della legislazione in materia, fino al Decreto Crescita varato dall'attuale esecutivo Conte.

Cominciamo proprio dal Decreto Crescita approvato dal Governo il 4 aprile. Ci sono misure che vi riguardano?
Si. Un articolo è dedicato al rientro dei cervelli e va a rivedere l'impianto della normativa in maniera piuttosto sistematica. Non ho nessun problema a dire che il novanta per cento dei contenuti di questo articolo sono stati suggeriti dal nostro gruppo. Ma, assieme alle cose positive, ci sono alcune distorsioni clamorose che abbiamo ovviamente già segnalato.

A cosa si riferisce?
stage lavoro expatPartiamo dalle cose positive. Con questo intervento il legislatore va a potenziare il regime per i lavoratori impatriati portando nuovamente la defiscalizzazione dal 50% a 70%. Il beneficio si estende anche dal punto di vista temporale: se il contribuente ha acquistato un'unità immobiliare o ha dei figli ha diritto a una ulteriore estensione di cinque anni. Questo in ottica di retention, sulla base del ragionamento che il lavoratore, acquistando una casa, ha creato indotto nel paese e, con i figli, si è radicato sul territorio. Il testo prevede, inoltre, un incentivo potenziato per chi si trasferisce nelle regioni del Sud.

C'è un "però", mi sembra di capire.

Si, perché tutto ciò si applica solo ai contribuenti che rientreranno a partire dal 2020.  Ciò va snaturare completamente la norma: chi tornerà l'anno prossimo si ritroverà un impianto normativo decisamente incentivante, mentre tutti gli altri dovranno, ahimè, restare col vecchio. Una cosa che ci toglie il fiato.

In termini numerici cosa cambia?

Stiamo parlando di cinque anni al 50% rispetto a dieci anni potenziali, di cui cinque al 70% e cinque al 50%. È inammissibile, ed è assurdo che in questo momento, con Brexit e Londra che sta rilasciando sul continente professionalità di altissimo livello, l'Italia non ne approfitti preparandosi ad accoglierle. Mettiamoci nei panni di un manager che ora vive nel Regno Unito e deve decidere in questi giorni dove proseguire la carriera: con questa norma, potrebbe scegliere di andare altrove.

Non c'è una contrapposizione tra la richiesta dei lavoratori di tornare in Italia a condizioni agevolate e l'esigenza dell'agenzia delle Entrate, dello Stato e del legislatore di garantire una tassazione equa per tutti i cittadini?

La sua è un'obiezione che va dritta al cuore dell'iniziativa. Se pretendiamo l'equità fiscale erga omnes non dobbiamo neanche parlare di provare a far rientrare i "cervelli" dall'estero, perché questi, per definizione, sono mobili internazionalmente. Stiamo parlando di una fetta di contribuenti molto piccola, una decina di migliaia di persone o poco più, che sono, da un punto di vista lavorativo, in posizioni apicali nel paese, e portano competenze e abilità che in Italia ci sogniamo. Se li vogliamo, il mio parere è che dobbiamo coccolarli, in qualche modo. La presenza di un impianto incentivante presuppone di per sé che il legislatore abbia un occhio di riguardo nei confronti di chi si vuole attrarre, ma anche e soprattutto trattenere: perché una volta rientrati, ci dimentichiamo di farli rimanere. Tornano nel nostro e poi se ne vanno di nuovo all'estero: hanno offerte di lavoro dal Sudafrica, dalla Germania, dagli Stati Uniti, e ci vuol poco a essere più competitivi di uno stipendio italiano. Il legislatore deve capire che questa è una categoria protetta. Se li vogliamo, l'unica strada sono degli incentivi.

Qual è l'impatto di questi rientri sul Paese in termini sociali ed economici?

I dati della Ragioneria dello Stato dicono che si tratta di un fatto comunque positivo, perché in mancanza di incentivi questi soggetti non pagherebbero imposte.

Esiste qualche dato sulla retention? Quanti, tra i lavoratori rimpatriati, hanno deciso di restare una volta terminati gli incentivi?

La percentuale di ritorno all'estero è elevatissima una volta esauriti gli incentivi. Al termine dei cinque anni, questo contribuente è abituato a percepire un reddito elevato: quando, con le tasse, torna normale, le proposte che arrivano dall'estero diventano particolarmente allettanti.

Eppure ci sono persone rientrate subito all'indomani della legge Controesodo, nel 2011, che hanno beneficiato di questi incentivi molto a lungo: addirittura fino a oggi.

Sì, è vero. Esistono alcuni contribuenti storici rimasti in Italia che si ritrovano nella situazione di beneficiare ancora, dopo otto anni, di questo regime. Ma andiamo a vedere il trattamento riservato ai ricercatori: all'articolo 4 del dl Crescita per loro sono previsti tredici anni! Questi lassi temporali, che al contribuente medio possono sembrare estremamente lunghi, sono in realtà la norma per poter pensare di trattenere un lavoratore impatriato. Dal nostro osservatorio lo vediamo tutti i giorni: spesso accade che alla scadenza dei cinque anni concordati al lavoratore arrivi un'offerta dall'estero, e il "cervello" se ne vada di nuovo.

Un'ultima cosa. Esistono differenze tra "cervelli in fuga" con lauree e dottorati e lavoratori che hanno titoli di studio più bassi? In fondo, non è detto che per aprire un'impresa e contribuire a migliorare il paese serva un titolo accademico. 
Il requisito della laurea è stato rimosso nel decreto Crescita, ma, per chi ha redditi bassi, probabilmente la flat tax è più conveniente del regime per gli impatriati. Il testo, però, contiene un'altra novità: gli incentivi si applicano anche ai redditi di impresa: quindi se un pizzaiolo di New York torna e apre una pizzeria in Italia, il fatturato aziendale sarà tassato meno di quanto sia adesso.

Antonio Piemontese

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