Il dibattito sull'articolo 18 sta cannibalizzando da settimane la discussione sul JobsAct. Sembra che sui giornali e in televisione non ci sia attività più importante che vivisezionare quella norma introdotta 44 anni fa nello Statuto dei lavoratori, che si intitola "Reintegrazione nel posto di lavoro" e che prevede che un giudice possa giudicare illegittimo un licenziamento e ordinare, in determinati casi, che le aziende con oltre 15 dipendenti siano obbligate a riprendere il lavoratore e rimetterlo al suo posto.
Una norma sacrosanta o anacronistica? Eliminare l'articolo 18 ci renderebbe un paese più efficiente, come sostengono alcuni - come per esempio il sottosegretario al ministero delle Riforme Ivan Scalfarotto, dirigente delle Risorse umane per quasi un ventennio prima di darsi alla politica - oppure ci farebbe uscire dal novero dei paesi civili, come ha sostenuto per esempio l'ex premier Massimo D'Alema?
Per fare un po' di chiarezza l'Adapt ha pubblicato ieri un paper intitolato Licenziamenti: quadro comparato, [scaricabile gratuitamente sul sito BollettinoAdapt] mettendo a confronto le norme in tema di licenziamenti in vigore in otto Paesi, alcuni dei quali molto vicini all'Italia: Danimarca, Francia, Germania, Regno Unito, Spagna, Svizzera, Stati Uniti, Giappone e Cina. A capo del gruppo di lavoro che ha curato la pubblicazione c'è Paolo Tomassetti, 30 anni, assegnista di ricerca all'università di Modena e Reggio Emilia. Articolo 36 gli ha chiesto di tracciare una panoramica della situazione italiana.
In Italia i licenziamenti possono afferire a una delle due grandi categorie: individuali e collettivi. Che caratteristiche devono avere quelli collettivi, e con quali modalità vengono eseguiti?
I licenziamenti collettivi, come si evince dalla nozione stessa, coinvolgono una "collettività" di lavoratori in un contesto di riduzione, trasformazione o cessazione dell'attività. Si tratta di una procedura che interessa imprese con più di 15 dipendenti che intendano effettuare, per la medesima causa, almeno 5 licenziamenti nel periodo di tempo di 120 giorni, nell'ambito della stessa provincia. La legge 223/1991 agli articoli 4 e 24, prevede una procedura di informazione - comunicazione - e consultazione - esame congiunto - delle rappresentanze sindacali, all'esito della quale l'azienda può procedere al licenziamento collettivo.
I licenziamenti individuali invece si suddividono abitualmente in tre tipologie: quelli per motivi disciplinari, quelli per motivi economici e quelli discriminatori. Partiamo da questi ultimi, che sono i più odiosi. Conferma che sono totalmente illegittimi e che nessuna riforma ha mai cercato di "liberalizzarli"?
Confermo: il licenziamento disposto per motivi discriminatori non solo è illegittimo, ma è nullo. Una sentenza che accerti la natura discriminatoria di un licenziamento, dispone contestualmente la nullità dell'atto e, conseguentemente, la reintegrazione del prestatore di lavoro e il risarcimento del danno, ripristinando le condizioni di impiego preesistenti, come se il lavoratore non fosse stato mai licenziato. Questa forma di tutela, definita “tutela reale” perché intesa a garantire al lavoratore la restituzione della "cosa" - “res” - ovvero il posto di lavoro, non è mai stata messa in discussione dal legislatore con riferimento alle ipotesi di licenziamento discriminatorio.
Quali sono le grandi aree di discriminazione tutelate dal legislatore italiano?
Il principio di illegittimità del licenziamento discriminatorio affonda le radici nell'articolo 3 della Costituzione italiana: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Queste sono le grandi aree di potenziale discriminazione tutelate dal nostro ordinamento giuridico. Si tratta di aree che, peraltro, la giurisprudenza ha contribuito ad interpretare in chiave estensiva, anche alla luce dell'articolo 15 dello Statuto dei lavoratori per cui «è nullo qualsiasi patto od atto diretto a licenziare un lavoratore a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero - ovvero - a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali».
Con la riforma Fornero la disciplina di questi licenziamenti è cambiata? E con la bozza di riforma Renzi-Poletti, è previsto qualche mutamento?
Sia nel caso della riforma Fornero, che nel caso dell'articolo 8 della Legge 148/2011 che abilita la contrattazione aziendale a derogare anche all'articolo 18 dello Statuto, è stato confermato il regime di protezione "hard" del lavoratore nella ipotesi di licenziamento discriminatorio, consistente nella reintegrazione nel posto di lavoro associata al risarcimento del danno. Si tratta di un punto fermo anche del Jobs Act.
Sarebbe auspicabile estendere la normativa sul reintegro in caso di licenziamenti discriminatori anche alle aziende al di sotto dei 15 dipendenti?
La reintegrazione del lavoratore in caso di licenziamento discriminatorio in realtà è un principio disciplinato, prima ancora che dall'articolo 18 dello Statuto, dall'articolo 4 della legge 604/1966 e dall'articolo 3 della legge 108/1990: nelle aziende che hanno meno di 15 dipendenti, il licenziamento per motivi discriminatori rappresenta l'unico caso in cui il datore di lavoro è comunque obbligato alla reintegra del dipendente.
Passiamo ai licenziamenti individuali per motivi economici. Qui le fattispecie più comuni sono la chiusura di un ramo di azienda o la riorganizzazione di un settore. Come funziona in questo caso?
Il licenziamento per ragioni economiche riguarda la ipotesi di recesso unilaterale del datore di lavoro dal rapporto con il dipendente per motivi che che riguardano la riorganizzazione aziendale. Viene anche definito licenziamento per giustificato motivo oggettivo. In caso di contestazione, la legittimità di questo tipo di licenziamento viene accertata dal giudice in relazione alla oggettività della motivazione, alla impossibilità di assegnare il lavoratore a mansioni diverse rispetto a quelle per cui è stato assunto, e al rispetto delle norme di carattere procedurale e formale: comunicazione tramite atto scritto, motivazione e così via.
Ha senso che sia un giudice a sostituirsi all'imprenditore nel decidere se c'è un motivo economico sufficientemente valido per licenziare?
Ha senso nella misura in cui il motivo addotto dal datore di lavoro a supporto del licenziamento viene contestato dal lavoratore e si crea un contenzioso. In realtà, infatti, non è il giudice di sua spontanea volontà a decidere di sindacare la scelta dell'azienda; è il lavoratore che, ad esempio, contesta la impossibilità rinvenuta dal datore di lavoro ad essere adibito ad altra mansione, e impugna il licenziamento. Da questo punto di vista, rappresentano un valore gli strumenti stragiudiziali per la risoluzione delle controversie - per esempio il tentativo di conciliazione - e l'intermediazione sindacale per il presidio della correttezza e buona fede del datore di lavoro che licenzia.
Con la riforma Fornero la disciplina di questi licenziamenti è un po' cambiata: il reintegro è previsto solo in caso di manifesta insussistenza del fatto che ha determinato il licenziamento. Questo perimetro quali fattispecie comprende? Che vuol dire "manifesta"?
Lo spazio per il contenzioso dovrebbe essere il più stretto possibile, per limitare i margini di discrezionalità del giudice nel dirimere la controversia. Questo obiettivo può essere raggiunto solo con una tipizzazione puntuale delle ragioni che possono legittimare il licenziamento. La contrattazione collettiva è una soluzione, ma non basta. Soprattutto se le leggi cambiano di anno in anno e le parti sociali sono costrette ad inseguire. La norma imperativa di legge, quando interviene, dovrebbe essere puntuale, e non lasciare spazio a questa o quella interpretazione. Il principale limite dell'articolo 18 così come riformato dalla legge Fornero, è dato dalla persistente genericità - concettuale - della norma, che prevede soltanto dei macro indicatori di illegittimità del licenziamento, che a loro volta contribuiscono a definire solo i confini di grandi contenitori entro cui i giudici possono continuare a muoversi con ampia discrezionalità.
E con la bozza di riforma Renzi-Poletti, è previsto qualche mutamento?
Purtroppo, al momento, i cambiamenti in discussione non sembrano andare nella direzione della chiarezza. Anzi, il rischio è che il punto di caduta del confronto politico sarà l'ennesima soluzione compromissoria che finirà per aggiungere complessità su complessità. Il ché, in automatico, significa scarsa effettività della norma e alto contenzioso.
Infine i licenziamenti disciplinari. Qui ci sono due sottoinsiemi: la motivazione di "giusta causa" e quella di "giustificato motivo". Partiamo dalla giusta causa: il legislatore prevede che si possano sanzionare con questo tipo di licenziamento individuale condotte di particolare gravità che pregiudicano definitivamente il rapporto di fiducia tra azienda e lavoratore, come per esempio il rifiuto di lavorare, l'insubordinazione, il furto in azienda.
Esatto. Parliamo di condotte da parte del lavoratore tanto gravi da compromettere in modo irrimediabile il rapporto di fiducia col datore di lavoro; condotte tanto gravi da giustificare il licenziamento "in tronco", senza preavviso. Anche qui, la contrattazione collettiva svolge un ruolo strategico nella tipizzazione delle cause che giustificano questa fattispecie di licenziamento. Ma spesso non basta: anche...
...le declaratorie contrattuali hanno margini di incertezza e il fatto che non sono tassative, lascia comunque un ampio margine di discrezionalità per il giudice.
Il secondo sottoinsieme di licenziamenti disciplinari è quello per "giustificato motivo soggettivo", che ricomprende cioè condotte meno gravi ma che rendono difficile la prosecuzione del rapporto di lavoro, come per esempio le violazioni disciplinari.
Nel caso di licenziamento disciplinare, la condotta del lavoratore oggetto di contenzioso è meno grave. Il recesso del datore di lavoro avviene, normalmente, all'esito di una serie di provvedimenti disciplinari di tipo conservativo stabiliti dai contratti collettivi, a partire dal richiamo verbale, fino alla sospensione della retribuzione. Ciò che rileva in questo caso, ai fini della legittimità del licenziamento, è la reiterazione dei comportamenti del lavoratore. Il giudice, chiaramente, accerta anche il rispetto dei principi di gradualità e proporzionalità da parte del datore di lavoro.
Prima della riforma Fornero, quando il giudice riteneva che le circostanze addotte dall'imprenditore per motivare il licenziamento per "giusta causa" o per "giustificato motivo" non sussistessero, dichiarava l'illegittimità del licenziamento e ordinava il reintegro del dipendente. Dopo la riforma Fornero, il meccanismo non è più automatico: il datore di lavoro è obbligato a un risarcimento economico pari alla retribuzione da 15 a 24 mesi. Ma il reintegro è comunque una opzione possibile: se il giudice accerta che il dipendente non ha commesso il fatto che ha dato origine al licenziamento, può disporre il reintegro e un'indennità pari alla retribuzione dovuta dal momento del licenziamento. È questa possibilità che spaventa le aziende straniere dall'investire in Italia?
La riforma Fornero interviene sull’impianto dell’articolo 18 con una rimodulazione e un ampliamento della varietà delle tutele connesse al licenziamento illegittimo. Non più quindi soltanto la reintegra a fronte del licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo, ma quattro diverse fattispecie di tutela. La relazione tra l'articolo 18 e il basso grado di attrattività di investimenti diretti esteri del nostro Paese è, per essere diplomatici, un assunto tutto da dimostrare. Volendo utilizzare categorie proprie dell'economia internazionale, le aziende scelgono di investire e produrre in altri Paesi principalmente per i seguenti motivi: vicinanza rispetto ai mercati di riferimento; presenza di reti infrastrutturali efficienti; basso costo dell'energia; certezza del diritto e, in alcuni settori ad alta intensità di manodopera, rapporto tra costo del lavoro e produttività. Quanto incide l'articolo 18 su queste determinanti?
È accaduto, come anche Adapt ha ricordato, che dello strumento del reintegro si sia abusato: molti ricordano il caso dei facchini di Malpensa, scoperti a rubare nelle valige, licenziati e poi reintegrati dal giudice. Come possono essere accaduti questi "corto circuiti giudiziari"? Come può un giudice ordinare di reintegrare un dipendente ladro?
Le valutazioni dei giudici tengono conto, come nel caso citato, anche e soprattutto di elementi procedurali e formali, oltreché della sostanza dei fatti. Una vicenda come quella di Malpensa può sembrare un'ingiustizia agli occhi dell'opinione pubblica, ma i formalismi giuridici sono garanzia di imparzialità del processo. Che è bene ricordare si articola in tre gradi di giudizio proprio per limitare i margini di errore dei singoli e/o le valutazioni simpatetiche che hanno a che fare con la dimensione dell'ideologia più che del diritto. Detto questo, è senz'altro un'anomalia che nel nostro Paese casi identici, siano giudicati in maniera differente a seconda del foro in cui viene svolto il processo.
Nella sua prima bozza, la riforma Renzi-Poletti avrebbe dovuto eliminare completamente la possibilità di reintegro, salvo i casi di licenziamento discriminatorio. Era una formulazione corretta?
Se è proprio necessario intervenire sul simbolo, l'operazione di elisione deve essere netta: reintegra solo in caso di licenziamento discriminatorio, e il resto affidato alla contrattazione collettiva. A patto però che si cominci a parlare d'altro. Ad esempio, di politiche mirate ad intercettare e includere le fasce della popolazione che non solo non trovano lavoro, ma che hanno smesso di cercarlo. Il dato più preoccupante del mercato del lavoro in Italia continua ad essere, del resto, il basso tasso di occupazione regolare. Si tratta di una costante della nostra economia oramai da un ventennio. L’occupazione nel 2013 è scesa al 59,8%: circa 8 punti inferiore rispetto al resto d’Europa. E i più colpiti sono le donne e i giovani nella fascia di ingresso al lavoro, tra i 25 i 34 anni. I punti di partenza qui sono scuola e famiglie. Le parole chiave orientamento intensivo e vera alternanza scuola-lavoro.
Le ultime modifiche del testo hanno portato a un passo avanti o a uno indietro?
Un passo avanti o uno indietro per chi? E verso cosa? Nel dibattito politico e mediatico, oggi, il tema dell'articolo 18 è associato a quello della condizione di difficoltà oggettiva che i giovani vivono nella nostra società, prima ancora che nel mercato del lavoro. Questa associazione dà la dimensione di quanto il dibattito sia strumentalizzato. Sono anni che i giovani non vedono l'articolo 18 neppure col binocolo. I più fortunati, hanno un contratto di apprendistato che al termine del periodo formativo prevede un momento di libera recidibilità per il datore di lavoro. C'è poi il popolo dei precari a tempo determinato della pubblica amministrazione, delle partite iva, e dei co.co.pro., che non solo sono fuori dal campo di applicazione della tutela reale, ma che non hanno neppure diritto alla tutela obbligatoria in caso di licenziamento. Idem per l'esercito degli stagisti, che lavoratori non sono, ma spesso si ritrovano a farsi carico anche del lavoro dei "colleghi" coperti dall'articolo 18. Fuori dal mercato del lavoro, infine, ci sono i 20 milioni di giovani disoccupati e gli inattivi, quelli che hanno perso le speranze e hanno smesso di cercare lavoro, o che ne hanno trovato uno in nero. I senza contratto. I senza articolo 18. Appunto.
Community