Jobs Act: ampio margine di miglioramento su contratto unico e salario minimo

Eleonora Voltolina

Eleonora Voltolina

Scritto il 08 Apr 2014 in Articolo 36

Jobs Act Salario minimo

Finalmente il testo c'è. Nei giorni scorsi il governo ha depositato il testo del disegno di legge, titolo ufficiale: «Delega al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino dei rapporti di lavoro e di sostegno alla maternità ed alla conciliazione». Il Jobs Act insomma. Si sapeva che la strada da percorrere non sarebbe stata facile, sopratutto perché al governo ci sono Renzi e Alfano, una maggioranza formata da due partiti contrapposti, con posizioni politiche diametralmente opposte su molti temi, tra cui anche il lavoro.

Pd-Ncd, l'accordo sul lavoro impossibile. Già a gennaio-febbraio si era capito che le impostazioni di Pd e Ndc sul tema del Jobs Act sarebbero state difficilmente conciliabili. Nella bozza di Jobs Act di inizio gennaio Matteo Renzi aveva presentato una lista di punti che partendo dalla «semplificazione delle norme» citava espressamente un «codice del lavoro che racchiuda e semplifichi tutte le regole attualmente esistenti e sia ben comprensibile anche all’estero», la «riduzione delle varie forme contrattuali» e l'avvio di un «processo verso un contratto di inserimento a tempo indeterminato a tutele crescenti». Quanto di più distante dalla premessa del Jobs Act degli alfaniani, che recitava testualmente «a chi propone la logica antistorica del contratto unico, rigidamente valido per tutte le aziende e tutti i settori produttivi, rispondiamo che il dinamismo e pluralismo del mercato del lavoro richiede soluzioni su misura adeguate alle condizioni da regolare e nel rispetto di un nucleo inderogabile e limitato di diritti universali». La strategia proposta da Sacconi, presidente della Commissione Lavoro del Senato e decisore delle politiche sul lavoro del Nuovo Centro Destra, è dunque quella di partire dai bisogni delle aziende, perché «sono gli imprenditori a fare il lavoro e ne vanno ascoltate le ragioni». Aziende condizionate «dall’incertezza del futuro, dall’impossibilità di predeterminare rigidamente gli andamenti di mercato e quindi i costi fissi in base ai quali competere, di definire schematicamente le mansioni, di adattare gli orari ai tempi e alle quantità degli ordini» e che hanno dunque bisogno di estrema flessibilità sia nel poter assumere personale con contratti temporanei, sia nel poter licenziare senza troppe difficoltà un «lavoratore ritenuto inidoneo o in esubero».

Il compromesso del disegno di legge. Da queste premesse era altamente probabile che uscisse una proposta di compromesso. Infatti così è stato. Il cuore del disegno di legge delega sta nell'articolo 4, e riporta infatti pienamente le contraddizioni della maggioranza di governo, ben poco coesa sul tema e soprattutto sulle modifiche più efficaci da apportare alla normativa per rilanciare il mercato dell'occupazione in Italia. L'articolo 4 si intitola «Delega al Governo in materia di riordino delle forme contrattuali» e si pone come obiettivo, nelle prime righe dell'articolo 1, quello di «rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonché di riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo». L'orizzonte temporale entro cui il governo si impegna a fare questo è «sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge», il piano operativo - cioè il "come" - è descritto attraverso la stesura di «uno o più decreti legislativi recanti misure per il riordino e la semplificazione delle tipologie contrattuali esistenti».

Contratto unico, solo un'ipotesi. Tale lavoro, promette il governo, verrà svolto tenendo conto anche «degli obiettivi indicati dagli orientamenti annuali dell’Unione europea in materia di occupabilità» e dovrà rispettare alcuni «criteri direttivi», che vengono suddivisi in cinque lettere. La lettera a prescrive di «individuare e analizzare tutte le forme contrattuali esistenti, ai fini di poterne valutare l’effettiva coerenza con il tessuto occupazionale e con il contesto produttivo nazionale e internazionale, anche in funzione di eventuali interventi di semplificazione delle medesime tipologie contrattuali». Una ricognizione dunque: un lavoro preventivo di studio dell'esistente, in cui la semplificazione resta sullo sfondo, come una possibilità solo «eventuale». La lettera b disegna il passo successivo, e cioè la «redazione di un testo organico di disciplina delle tipologie contrattuali dei rapporti di lavoro, semplificate secondo quanto indicato alla lettera a), che possa anche prevedere la introduzione, eventualmente in via sperimentale, di ulteriori tipologie contrattuali espressamente volte a favorire l’inserimento nel mondo del lavoro, con tutele crescenti per i lavoratori coinvolti». E qui bisogna stare attenti, soppesare le parole. Renzi aveva promesso «la «riduzione delle varie forme contrattuali» e l'avvio di un «processo verso un contratto di inserimento a tempo indeterminato a tutele crescenti». Ora invece il suo governo scrive le parole «possa» e «anche», facendo diventare l'idea del contratto unico un orizzonte molto lontano, eventuale, certamente non al centro dell'azione politica e normativa. Come se non bastasse, c'è l'inciso che recita «eventualmente in via sperimentale» e diminuisce ancor di più la già scarsa forza del progetto. E infine la mazzata finale: il testo parla di «ulteriori tipologie contrattuali con tutele crescenti». Qui bisogna notare la desinenza. Se prima Renzi parlava di «un contratto di inserimento a tempo indeterminato a tutele crescenti», al singolare, ora il testo del disegno di legge preannuncia «ulteriori tipologie contrattuali con tutele crescenti». Al plurale. A quanto pare insomma il contratto unico, se mai vedrà la luce, si moltiplicherà in più contratti (a quel punto, si può facilmente dedurre, ben poco unici). E ciliegina sulla torta, la modalità sarà quella di aggiungere al bouquet di contratti già esistenti: quell'aggettivo, «ulteriori», sta lì proprio per dire che non necessariamente il contratto unico ne sostituirà altri. La pluralità verrà mantenuta anzi forse addirittura ampliata: così come chiedeva Alfano.

E spunta il salario minimo. Proseguendo nella lettura del testo del disegno di legge si incontra, alla lettera c, la proposta di «introduzione, eventualmente anche in via sperimentale, del compenso orario minimo, applicabile a tutti i rapporti aventi ad oggetto una prestazione di lavoro subordinato, previa consultazione delle parti sociali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale». Insomma, il salario minimo: una legge che la Repubblica degli Stagisti sostiene e propugna da mesi, e che sarebbe molto utile a limitare il gravissimo problema - molto diffuso in Italia - dei lavori sottoretribuiti e di conseguenza dei working poors, le persone che pur lavorando a tempo pieno non riescono a guadagnare una somma sufficiente a mantenersi decentemente. Eppure, anche qui, una lettura più approfondita delle parole utilizzate nel testo rischia di spegnere gli entusiasmi. A parte il solito inciso, «eventualmente in via sperimentale», che depotenzia l'assunto riducendolo al rango di una sperimentazione (dunque con tutta probabilità con un raggio ridotto), e a parte la scelta di non utilizzare la terminologia tecnica solitamente utilizzata dagli addetti ai lavori - «salario minimo» - preferendo il sinonimo «compenso», è nella platea individuata dal disegno di legge che sta il problema maggiore. «Applicabile a tutti i rapporti aventi ad oggetto una prestazione di lavoro subordinato» dice il testo. Che cosa? Il lavoro subordinato, salvo rarissimi casi, è già blindato dal punto di vista salariale. Quando si assume qualcuno con contratto subordinato, infatti, si fa riferimento a uno degli oltre 500 contratti nazionali di lavoro vigenti. Nel contratto dunque viene riportata tutta la regolamentazione concordata tra le parti, compresa quella dei minimi salariali, degli scatti di anzianità, di tutte le garanzie di cui il lavoratore subordinato gode - dalle ferie retribuite ai permessi retribuiti, alle festività, ai congedi. È esattamente per questo motivo che l'Italia, a differenza dei due terzi degli altri Paesi europei, non ha avuto fino alla fine degli anni Novanta bisogno di una legge sul salario minimo: perché l'attività di contrattazione sindacale bastava a tutelare i lavoratori, creando tanti salari minimi quanti erano i ccnl. Ma il discorso è radicalmente cambiato quando la modalità principale se non unica di assunzione ha cessato di essere quella del contratto subordinato, e sono entrate in gioco - con il pacchetto Treu e la legge Biagi - tutte le nuove modalità contrattuali di tipologia autonoma, o "parasubordinata", come i cococo e i cocopro.

Il paradosso dei parasubordinati esclusi dal compenso minimo. La proposta di legge del governo Renzi dunque propone di applicare il compenso minimo ai lavoratori subordinati, che nel 99% dei casi già ce l'hanno. Cioè si propone di "salvare" quelle poche migliaia di contratti subordinati che ogni anno vengono attivati al di fuori dei ccnl, anziché mirare al grosso dello sfruttamento, che sta nelle decine di migliaia di contratti di lavoro di tipologia parasubordinata, le cosiddette «collaborazioni». Quelle che prevedono una copertura previdenziale molto più bassa (dunque, tra trent'anni, pensioni molto più misere), e sopratutto un bouquet di diritti ridotto all'osso - niente tfr, niente straordinari, niente ferie o permessi pagati. Ma sopratutto nessuna tutela dal punto di vista della retribuzione, che è slegata dai ccnl e completamente lasciata alla contrattazione tra le parti. Con il risultato che, a fronte di un professionista forte che riesce a imporre al committente la sua "tariffa" e dunque a concordare un compenso adeguato, ve ne sono dieci deboli che devono accettare quel che viene proposto e farselo bastare, fosse anche un finto cocopro a 800 euro al mese per il quale viene però richiesta la presenza quotidiana in ufficio, vincoli gerarchici e svolgimento di mansioni ripetitive e/o meramente esecutive. Ecco dunque il paradosso del disegno di legge: che propone l'istituzione di un provvedimento giusto, il salario - o compenso che dir si voglia - minimo, ma sbagliando completamente la platea.

La parola al Parlamento
. Con questo disegno di legge in pratica il governo chiede la delega al Parlamento a poter legiferare in materia di lavoro. La si potrebbe paragonare a una piccola richiesta di "fiducia", nel senso politico del termine: Renzi ha tracciato le linee guida dei contenuti che promette di inserire in questa legge, e chiede al Parlamento di permettere al governo di andare avanti su questa strada elaborando i decreti necessari a mettere in atto questa riforma del lavoro. La speranza è che il Parlamento, prima di dare il suo vialibera, intervenga sul decreto andando a correggere almeno questi due punti salienti: in questo caso anche una parola, un singolare al posto del plurale, la soppressione di un inciso, può essere fondamentale per mutare il corso degli eventi, e poter sperare in un Jobs Act più incisivo e più coerente con ciò che Renzi aveva promesso nei mesi scorsi.

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