Si chiama Paola Stringa la 35enne giornalista e scrittrice che di recente ha pubblicato Blogdemocrazia (Carocci), volume che analizza come le nuove tecnologie – blog e social network in primis – stiano lentamente scavalcando i luoghi più tradizionali in cui si forma l’opinione pubblica (ad esempio partiti e sindacati). Tra i case history citati c’è anche la Repubblica degli Stagisti, a cui l’autrice dedica due pagine nel capitolo «Social network e partecipazione».
Nel libro si parla di questo webmagazine come di un «esempio di come la rete, oltre a fare massa critica, in alcuni casi sa anche capitalizzare le risorse che convergono nei suoi preziosi serbatoi». Possiamo spiegare questo concetto?
Per me quella di capitalizzare le risorse dovrebbe essere la condizione permanente di blog non generalisti. Questi come i social network devono caratterizzarsi come un vivaio di idee con cultura partecipata dal basso. È quello che intendo sia avvenuto nel vostro caso, in cui Eleonora Voltolina ha raccolto contatti e idee partendo dal basso e non avvalendosi di una posizione di leadership.
Quindi si può affermare che Internet possa davvero servire non solo a sensibilizzare su questioni socio-politiche, ma anche a cambiare davvero le cose, magari a rivoluzionarle... o è un po’ troppo?
No, non lo è. Molti blog, come abbiamo visto negli Stati Uniti, sono stati in grado di fare perfino fund raising, cioè da collettori di denaro in grado di portare avanti l’elezione del presidente Barack Obama. Anche la Repubblica degli Stagisti ha messo insieme delle persone che altrimenti non avrebbero fatto massa critica, in un Paese in cui gli stagisti vengono pagati sempre meno o nulla e che si basa su un welfare familiare. Questo sito si è posto come corpo intermedio, arrivo a dire che sta facendo quello che poteva fare un sindacato trent'anni fa. Adesso queste istituzioni sono lontane dalla gente, che si rivolge dunque alla rete non più come una classe sociale bensì generazionale. Così si creano però delle "reti più lunghe" rispetto ai luoghi tradizionali, dei rapporti meno densi e strutturati.
Quindi il rischio che si corre con il web è di non arrivare a nulla?
Ci sono delle esperienze che nascono e muoiono in rete perché non si pongono obiettivi e scadenze, e in più sono prive di luoghi fisici. Quello che si dovrebbe fare, anche per la Repubblica degli Stagisti, è diventare come dei think thank. È già moltissimo che la Repubblica degli Stagisti in questi anni sia riuscita a far scaturire interrogazioni parlamentari e proposte di legge, e che il suo direttore sia stato audito alla commissione lavoro della Camera.
Oltre i noti problemi per la privacy, l’accumulo di informazioni su Internet crea un rischio anche di superficialità, dovuto all’impossibilità di creare archivi.
Per quanto riguarda i soggetti pubblici e le imprese, si stanno già attrezzando per la web reputation. Oggi ci sono delle leggi ad hoc. Per il flusso di informazioni invece, il problema non è tanto la superficialità quanto la frammentarietà. Troppe informazioni spesso significano nessuna informazione. Oggi si dice «l’ho letto in rete» come una volta si diceva «l’ho sentito alla tv». Ma è la stessa affermazione qualunquista. Secondo me da questo punto di vista i giornali tradizionali sono irrinunciabili. Solo la politica industriale saprà dire poi se vincerà l’iPad piuttosto che il giornale online, ma sarà comunque necessaria la testata che faccia il punto sulla situazione.
Il titolo del libro è proprio Blogdemocrazia. Davvero con i blog e i social network si può instaurare la democrazia dove non c’è ancora - come per le rivolte del Maghreb a cui si fa riferimento nel libro - o migliorarla dove già c’è?
Il titolo io l’avrei voluto con il punto interrogativo. Non so se credo nella "blogdemocrazia". Credo che la blogosfera e la rete abbiano il merito di aver messo insieme degli interlocutori dove non c’è libertà di stampa. Nelle rivolte arabe la rete, che sicuramente è il luogo dell’opposizione e non dell’establishment, è stata fondamentale per raccogliere il dissenso. Che riuscirà poi a essere canalizzato? È una domanda a cui potranno rispondere solo le generazioni future.
Ilaria Mariotti
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