Giovani italiani impreparati al mercato del lavoro: «Ma la colpa non è loro»

Ilaria Mariotti

Ilaria Mariotti

Scritto il 09 Lug 2015 in Approfondimenti

«L'esodo dei cervelli dall'Italia è un trend in progressiva crescita. Un aumento di quasi il 50% rispetto all’anno precedente si è registrato nel solo anno 2013 con la partenza di 16mila laureati, secondo dati del Rapporto Migrazioni dell’Istat». Michèle Favorite, professoressa di Economia aziendale alla John Cabot University, è molto preccupata e non lo nasconde alla Repubblica degli Stagisti. Uno spreco da «un miliardo e 984 milioni di euro trasferiti all’estero, solo nel 2013» visto che «un laureato costa in media allo Stato 124mila euro in formazione». Eppure dei rimedi ci sarebbero per arginare l'esodo, secondo questa docente italo-americana che di ragazzi italiani e mercato del lavoro si occupa per mestiere: tra le materie di sua competenza c’è per esempio come si redige un curriculum («da bandire quello europeo» è la regola numero uno). 

Cosa bisognerebbe fare per porre freno all’emorragia delle nuove generazioni dal nostro paese?

Da qui se ne vanno in cerca di quello che pensano di non poter avere. Sono pronti a sostenere difficoltà e spese enormi, ad allontanarsi da famiglia e amici, pur di stare meglio. Ambiscono a un lavoro flessibile sia entrata che in uscita, alle possibilità di carriera che in Italia non ci sono, perché i posti migliori sono degli anziani. Trovano un sistema non meritocratico, dove regnano raccomandazione e lungaggini burocratiche. E fuggono perché non vedono la luce alla fine del tunnel. Bisogna quindi dare loro tutto quello che cercano, tra cui la speranza di un futuro.

I giovani italiani e il loro approccio al mercato del lavoro: quali sono le principali criticità? 

Qui i ragazzi che escono dai percorsi universitari si trovano impreparati ad affrontare il mercato del lavoro, carenti di quelle soft skills talvolta più importanti del background teorico. Mancano spirito critico, apertura alla diversità, flessibilità, attitudine all'iniziativa. Altro dato è che per cercare lavoro non usano canali professionali, non vanno sui siti aziendali e per esempio solo uno su tre usa LinkedIn. Senza parlare di quando si presentano ai colloqui: il 25% va accompagnato da un amico, o addirittura da mamma e fidanzati. Nessuno ha mai detto loro che non si fa.

Sarebbe bene ricordare sempre anche l'altra faccia della medaglia, ovvero quanto il recruitment italiano offra ben poco di qualificato ai giovani…

È così, basti pensare che 80% cerca lavoro attraverso amici e conoscenze. Sono bistrattati da mercato: secondo l’Ocse il 31% dei giovani occupati svolge un lavoro di routine che non richiede l’uso di competenze specifiche. E sempre secondo le classifiche internazionali i ragazzi italiani sono ultimi in Europa rispetto a quanto l’organizzazione per la quale lavorano li motivi a dare il meglio di sé. Sono poi sottopagati e il 54% di loro ha un lavoro temporaneo contro una media Ocse del 23%. Una grossa parte di responsabilità è quindi delle aziende. È troppo facile addossare la colpa ai 'mammoni' che non vogliono lasciare casa.

La scuola non li prepara al mondo del lavoro. Come si potrebbe migliorare il suo ruolo in questo senso?

Scuola e lavoro sono mondi paralleli che non comunicano. Dei giovani italiani non si dice mai di quanto poco siano aiutati a trovare un impiego rispetto a quanto avviene all’estero, dove invece sono supportati moltissimo. I careers services sono centri che i ragazzi americani si trovano a portata di mano, ogni giorno, gratis, nelle scuole e nelle università, e sono servizi che funzionano dove si va in continuazione per trovare stage o lavoro. E ancora, i ragazzi italiani non sanno preparare il curriculum: ma non è colpa loro perché nessuno glielo ha mai insegnato. Negli Stati Uniti il curriculum è materia d’esame al liceo. Ed è molto difficile imparare a presentarsi a un pubblico, come quello professionale, che è diverso da quello con cui si ha avuto a che fare fino a quel momento.

I curriculum, specie per i più giovani, contengono spesso solo esperienze di studio.
 È un dato negativo per le aziende?
Dovremmo aprire il discorso di come un americano inizi a lavorare se non dalle medie già dal liceo, tutte le estati e tutta l’estate. E non parliamo di quando va al college, o del Natale. Durante tutto il percorso di studi si ammazzano di lavoro e per questo hanno curriculum pieni zeppi di esperienze. Qui invece la mentalità è diversa, è quella di godersi tre mesi di vacanza l’estate. Ma è sbagliato: tutto va bene, anche lavoretti o il volontariato vanno coltivati, purché ci si tenga impegnati e si imparino a sviluppare quelle famose soft skills…

Che è ciò che ricercano soprattutto le aziende.

Da noi si pensa che più si studia e più si è attraenti per il mercato ma non è vero. Anche se i giovani italiani studiano moltissimo, non si tratta di un'attività che le aziende nostrane apprezzino. Preferiscono che si studi in fretta anche se non con ottimi voti. E ciò proprio per evitare la pecca tutta italiana dei giovani che non iniziano a lavorare prima dei 25 anni, in grande ritardo sui coetanei europei: per gli anglosassoni l'età media è 20-21anni. Molte aziende preferiscono un giovane che potranno formare loro stesse. Non vogliono candidati che sappiano già tutto, ma persone con competenze di base che verranno plasmate in base ai bisogni specifici dell’azienda. Tante aziende si lamentano che i giovani non hanno soft skills perché master dopo master hanno acquisito solo competenze specifiche.

E poi il grande problema del mismatch professionale: quali sono le professione più ambite e quelle più richieste e perché l’incontro tra domanda e offerta è così difficile?

Mancano sviluppatori di software, addetti al marketing, infermieri, progettisti elettronici, farmacisti, educatori professionali. E poi tutto ciò che è legato al digitale: secondo uno studio Mckinsey in Italia si sono creati 700mila posti di lavoro legati al web, il 60% direttamente collegato a Internet. Eppure, nell’era digitale, i ragazzi usano ancora poco il computer, al liceo nessuno lo insegna loro. Il dato è spaventoso: il 54% dei giovani che lavora risulta non aver mai usato un computer. Le opportunità quindi ci sono, ma la domanda non è tarata sull’offerta. Se i giovani fossero aiutati a capire quali sono i settori che tirano e aiutati a presentarsi in maniera professionale il mismatch sarebbe ridotto. E poi occorre spingere all'automprenditorialità, una scelta sempre più ambita in Italia dalle nuove generazioni, tanto da posizionarci al quarto posto nelle classifiche europee.

intervista di Ilaria Mariotti 

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