Capita di dover ribadire l'ovvio, il buonsenso, perché a volte l'ovvio e il buonsenso vengono negati. Spesso in cattiva fede. E allora bisogna intervenire, e dire le cose come stanno. È il caso delle recentissime decisioni riguardanti l'implementazione della legge sull'equo compenso giornalistico. Legge approvata a fine 2012 ma ancora non pienamente operativa, proprio perché fino ad ora è mancata una delibera: cioè, in pratica, il "tariffario". Gli addetti ai lavori sanno che è vietatissimo chiamarlo così, ma è sempre bene dire pane al pane e vino al vino.
E dunque, in estrema sintesi: i giornalisti non contrattualizzati, riuniti in movimenti e collettivi, a fine 2012 erano riusciti finalmente a farsi ascoltare e a ottenere una legge volta a tutelare i precari dallo sfruttamento. Al primo comma dell'articolo 1 la suddetta legge (233/2012) viene definita come «finalizzata a promuovere l'equità retributiva dei giornalisti iscritti all'albo […] titolari di un rapporto di lavoro non subordinato in quotidiani e periodici, anche telematici, nelle agenzie di stampa e nelle emittenti radiotelevisive». Al comma 2 si precisa: «per equo compenso si intende la corresponsione di una remunerazione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, tenendo conto della natura, del contenuto e delle caratteristiche della prestazione nonché della coerenza con i trattamenti previsti dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria in favore dei giornalisti titolari di un rapporto di lavoro subordinato».
Ma la legge sull'equo compenso giornalistico è stata, fin dalla sua approvazione, una vittoria a metà. Perché non ha stabilito, come il titolo avrebbe potuto far sperare, un equo compenso per i giornalisti esterni alle redazioni. No. Ha derogato questo compito a una commissione, da istituire «entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore». Commissione presieduta dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all'editoria (all'epoca del governo Letta era Giovanni Legnini, ora invece è Luca Lotti) e composta da sei elementi: un rappresentante del ministero del Lavoro e uno di quello dello Sviluppo economico; un rappresentante del Consiglio nazionale dell'Ordine dei giornalisti, uno del sindacato Fnsi, uno della Fieg e infine uno dell'Inpgi, la cassa previdenziale della categoria.
Calando un velo pietoso sui tempi biblici intercorsi tra l'istituzione di questa commissione, la nomina dei vari membri e l'effettiva tabella di marcia per fare quello che tutti questi rappresentanti erano chiamati a fare «entro due mesi dall'insediamento», arriviamo al punto. Dopo un anno e mezzo la commissione ha partorito, qualche giorno fa, l'accordo. Cioè il tariffario che è vietato chiamare tariffario. E il contenuto dell'accordo ha lasciato basiti tutti.
Tocca allora in queste righe sottolineare più volte l'ovvio e il buonsenso. No, 20 euro (lordi) ad articolo non è un equo compenso. È troppo poco. Ma il punto fondamentale non è nemmeno la cifra. Certo, è bassa. Ma c'è di peggio. La legge aveva infatti l'obiettivo di «promuovere l'equità retributiva dei giornalisti iscritti all'albo […] titolari di un rapporto di lavoro non subordinato». Secondo il buonsenso ciò significa che questa legge doveva servire a tutelare tutti i giornalisti esterni che collaborano con «quotidiani e periodici, anche telematici, agenzie di stampa ed emittenti radiotelevisive». Tutti. Non solo quelli che vengono inquadrati come cococo, fornendo cioè (secondo il documento ufficiale) «prestazioni che presentino, sul piano concreto, carattere economicamente dipendente e non sporadico» con una singola testata. Perché le modalità di inquadramento sorte nell'ultimo ventennio sono le più varie, e non ha senso - sarebbe anzi sommamente ingiusto - privilegiare alcuni a scapito di altri. E perché la multicommittenza per i giornalisti che non hanno un contratto subordinato è pressoché la norma.
Altro grande sfregio, i «requisiti quantitativi minimi». Vale a dire che l'ovvio buonsenso farebbe pensare che questo «equo compenso giornalistico», una volta stabilito, vada applicato ad ogni singolo giornalista, per ogni singolo articolo scritto o servizio prodotto, indipendentemente dal committente. Invece no. Non paga di aver fissato dei minimi bassissimi, e non paga di aver ristretto la platea praticamente ai soli titolari di contratti di collaborazione coordinata e continuativa (per tutti gli altri, pensiamo solo a chi lavora in regime di Partita Iva o di cessione di diritto d'autore, i requisiti per essere inclusi nell'«estensione della normativa» prevista dall'articolo 5 sono talmente stringenti da essere praticamente irraggiungibili per chiunque lavori con più di una testata), la commissione ha deciso per un ultimo requisito restrittivo. E cioè che l'equo compenso vada applicato solo su quei giornalisti che con una sola testata («lo stesso committente») abbiano un rapporto di collaborazione tanto consolidato da produrre un numero di articoli praticamente uguale a quello che producono i dipendenti subordinati di quella testata.
Si parla dunque almeno 144 articoli all'anno di almeno 1.600 battute per i quotidiani, e di almeno 45 articoli di almeno 1.800 battute per i settimanali. Chi è sotto questo quantitativo insomma potrà continuare ad essere sfruttato, pagato 5 euro a pezzo o magari addirittura di meno. Una «tagliola», l'ha definita Iacopino nella nota per il sottosegretario Lotti.
Una assurdità che va a danneggiare tutti quei freelance (spontanei o spintanei) che si sono faticosamente costruiti negli anni una rosa di collaborazioni, e che dunque non hanno un committente che rappresenta «l'80% dei corrispettivi annui complessivamente percepiti». Perché magari hanno una percentuale del reddito che arriva da una collaborazione con un quotidiano, un'altra percentuale dalla collaborazione con un periodico, una da una collaborazione con una testata online e così via.
L'accordo dunque mostra già dalla prima lettura tutta la sua inadeguatezza: è insufficiente, esclude larga parte dei giornalisti precari, pone condizioni assurdamente restrittive, e per giunta ai pochi inclusi e dunque d'ora in poi protetti dalla delibera offre condizioni ben poco eque.
Di chi è la responsabilità di questo scempio?
Non è un mistero che a questa legge gli editori abbiano fatto la guerra fin da prima che vedesse la luce. Gli editori, effettivamente, di questi tempi hanno pochi soldi. Guadagnano sempre meno: i giornali vendono sempre meno copie, anno dopo anno, e gli spazi pubblicitari che radio e televisioni vendono agli inserzionisti hanno quotazioni sempre più basse. Del web non vale nemmeno la pena parlarne: i banner sfruttano una miseria, rendendo praticamente impossibile la sostenibilità economica senza ricorrere ad altre fonti di finanziamento. Dunque, siccome gli editori hanno meno soldi di prima, vogliono contrarre le spese. Anziché rivedere i propri modelli di business, le linee editoriali, anziché provare a inventarsi un giornalismo nuovo che ricominci a far vendere copie di giornali e incolli gli spettatori a tv, radio e web, la maggior parte di loro sceglie di usare la strategia della compressione del costo del lavoro. Cercando cioè di ottenere sempre più lavoro pagando sempre di meno.
La situazione del settore dell'informazione è in questo senso paradigmatica: c'è una grandissima folla di giornalisti e aspiranti tali, dunque una grande offerta di lavoro; e una piccola schiera di testate che sfrutta questa massa, proponendo condizioni capestro che troppo spesso vengono accettate.
Personalmente, non penso che questa sia la strada. Oltre ad essere una giornalista sono anche, nel mio piccolo, una editrice, e conosco la fatica che serve per guadagnare in questo settore. Eppure non ho mai pensato di poter moltiplicare gli articoli sulle mie testate sottopagando i collaboratori. Ma la mia è una posizione minoritaria, ai limiti dell'idealismo: il mondo dell'editoria è pieno di piccoli e grandi squali, che cercano di restare a galla con ogni mezzo. Proponendo informazione di bassa qualità, inseguendo i clic con titoli civetta e foto pruriginose, copincollando comunicati stampa e addirittura articoli pubblicati altrove, e soprattutto sfruttando il lavoro giornalistico di professionisti e dilettanti.
Così, gli editori attraverso la Fieg hanno fatto un braccio di ferro contro questa legge. Il loro primo obiettivo era ritardarne il più possibile l'entrata in vigore, e l'hanno raggiunto: sono riusciti a tirarla per le lunghe per oltre un anno e mezzo, riuscendo a far coincidere il momento del voto della delibera con il momento del rinnovo del contratto giornalistico. Una tempistica che ha certamente conferito loro una posizione di forza a entrambi i tavoli. Il loro secondo obiettivo era assicurarsi che, una volta approvata, la delibera non facesse troppi danni: che prevedesse dunque minimi bassi, e soprattutto che non imponesse loro di pagare tutti i giornalisti almeno quei minimi. Da qui il gran lavorio per stabilire tutta quella serie di paletti irragionevoli, non previsti nella legge originale, che permettono ad alcuni (pochi) collaboratori di entrare nel novero dei "tutelati", e che ne lascia fuori moltissimi altri.
Dunque, tutta colpa degli editori? Non proprio. Al tavolo della commissione c'erano anche altri due soggetti in rappresentanza della categoria dei giornalisti: la Fnsi e l'Inpgi. E soprattuto la Fnsi, sindacato pressoché unico dei giornalisti, non avrebbe dovuto fare le barricate per ottenere un tariffario più decente e una interpretazione estensiva della platea dei beneficiari? Invece pare proprio che stia in capo al sindacato la maggior parte della responsabilità. «Le tariffe preparate da Lotti erano doppie o quasi rispetto a quelle volute dalla Fnsi» ha denunciato sulla sua pagina Facebook il presidente Odg Iacopino. Una versione che, se confermata, getterebbe una ulteriore ombra di discredito su quel sindacato che in questi giorni è diventato bersaglio di molte critiche.
C'è anche una petizione che gira su Internet. L'ho firmata, perché ritengo che qualsiasi espressione pubblica di dissenso nei confronti di questa porcata sia utile. Al momento in cui scrivo questo pezzo, la petizione ha superato le 1.300 firme. Non sono così ingenua da pensare che una petizione possa spostare di un millimetro l'accordo trovato, e temo dunque che la delibera resterà così com'è, con i suoi 20 euro e soprattuto con la sua platea ristretta. Ma al di là dell'indignazione momentanea, dell'hashtag #iniquocompenso, della manifestazione di protesta dei giornalisti freelance e precari appena fissata per martedì 8 luglio a Roma, di fronte alla sede della Fnsi, una riflessione va avviata necessariamente, e velocemente, su tre punti sopratutto.
La responsabilità del sindacato in questa vicenda, che si sovrappone in maniera inquietante al rinnovo del contratto di categoria (per i "fortunati" subordinati), è evidente: allora bisogna chiedersi se funzionino ancora i meccanismi di rappresentanza nella nostra professione. A me pare evidente di no: il 60% degli iscritti all'Inpgi è precario, eppure in commissione a definire le quotazioni dell'equo compenso e la platea dei beneficiari si è seduto qualcuno che con tutta evidenza non aveva massimamente a cuore le condizioni dei giornalisti freelance, dei collaboratori, dei non contrattualizzati. E questo pur essendosi dotata la Fnsi, da un paio d'anni, di una sua commissione lavoro autonomo interna… Restata, pare, del tutto inascoltata.
Il secondo punto da focalizzare è la necessità di fare i conti con la realtà. A fronte dei 20 euro che hanno scontentato tutti, infatti, una proposta ventilata nei mesi scorsi prevedeva una cifra tripla (60 euro). E c'erano stati giornalisti con una faccia tosta tale da giudicare anche quella cifra troppo bassa. Allora, capiamoci. Non è buono che l'equo compenso sia stato fissato a 20 euro, sopratutto con le limitazioni sopra elencate, che rendono i già bassi 20 euro utopici per una fetta enorme dei giornalisti precari. Ma non era pensabile che l'equo compenso venisse fissato nemmeno a 70, 80 o 100 euro come speravano (e sparavano) alcuni. Dunque chiediamoci: la fronda interna che puntava a un risultato irrealizzabile, che gioco ha giocato? Chi ha avvantaggiato e chi invece ha finito per indebolire?
Terzo e ultimo punto, l'autocritica. I pezzi pagati 4 euro esistono perché, purtroppo, ci sono tanti giornalisti che accettano di essere pagati 4 euro a pezzo. E non solo giovani di belle speranze che puntano ad accumulare gli articoli necessari a richiedere l'iscrizione all'albo dei pubblicisti. Queste tariffe da fame vengono accettate anche da tanti, tantissimi giornalisti già esperti, già iscritti all'Ordine da anni o decenni. Perché? Le ragioni sono molte, e complesse: impossibile ricostruirle qui. Certamente non è da ascrivere a loro la "responsabilità" della situazione mostruosa che ci troviamo di fronte. Ma altrettanto certamente noi dobbiamo chiedercelo: cosa succederebbe se, a partire da domani, nessuno - quantomeno nessun iscritto all'Odg - accettasse di lavorare per meno di 30 euro a pezzo?
Ecco, l'ho detto. Per me quella era la cifra a cui si sarebbe dovuto chiudere l'accordo. 30 euro almeno, per qualsiasi pezzo, anche solo uno, di lunghezza superiore a un tot di battute (1.600, 1.800, senza particolari innamoramenti: ma una cifra tonda, che stabilisse insomma la differenza con una breve). Senza limiti numerici, senza restrizioni nella tipologia di collaborazione e senza conteggi applicati «sullo stesso committente». Un vero equo compenso, a favore di tutti i giornalisti iscritti all'albo, capace di proteggere tutte le loro prestazioni lavorative. Per ottenere queste condizioni, però, ci sarebbe voluto qualche mastino della Fnsi - e non solo il buon presidente dell'OdG Enzo Iacopino, ultimo baluardo con il suo unico voto contrario - in commissione. In rappresentanza di un sindacato che tenesse davvero a portare a casa il miglior risultato possibile per i giornalisti non subordinati. La storia è andata in un altro modo, purtroppo. Ora attrezziamoci perché non ricapiti.
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