E se provassimo a guardare la nostra azienda, le nostre istituzioni, i nostri modelli di business con gli occhi dei nostri figli? Semplice, dovremmo cambiare molte cose. Questo significherebbe rinunciare al profitto? Certamente no, ma cambiare mentalità certamente sì. Si chiama economia positiva o capitalismo paziente, un tema discusso da una decina d'anni. A Milano se n'è parlato al workshop “Economia positiva passaporto per il futuro”, evento inserito nella tre giorni “Il tempo delle donne”, un’iniziativa voluta a fine settembre dal gruppo Rcs e Corriere della Sera in collaborazione con ValoreD, l'associazione di imprese creata per sostenere la leadership femminile in azienda.
Durante la tavola rotonda le espressioni più usate sono state “pratiche sociali di business” e “comportamenti sostenibili”. Tanti modi per dire la stessa cosa: spostare l’attenzione dalle logiche del profitto di breve periodo a quelle di lungo periodo e avere una maggiore attenzione per le nuove generazioni e per l’ambiente. Insomma, le aziende devono ripensare i propri fondamenti e la propria governance: anche attraverso un ruolo sempre più importante per le donne.
L’economia positiva diventa dunque un modello di business. Secondo il positive economy index , l’indice che misura il grado di realizzazione dell’economia sociale, l’Italia si piazza al terzultimo posto nel ranking europeo a causa della mancanza di fattori ritenuti chiave come l’altruismo e la cooperazione fra le generazioni, fra i territori e fra gli attori sociali. L’indice prende in considerazione 29 indicatori, di cui soltanto undici sono di tipo economico: gli altri riguardano le caratteristiche sociali, culturali e di governance. «Da questo punto vista l’Italia ha intrapreso un cammino che può essere virtuoso, ma che deve proseguire ancora a lungo» ha detto in un videointervento Jacques Attali, economista e uno dei più quotati teorici dell’economia positiva.
«Per continuare questo percorso» ha proseguito Roberto Fumagalli, senior partner di Kpmg, gruppo specializzato nella revisione e nella riorganizzazione contabile «bisogna rivedere il concetto stesso di sostenibilità produttiva e scollegare le aziende dalle logiche a breve termine. Non conta più solo il valore creato, ma anche i benefici sociali e ambientali che l’azienda è in grado di produrre. La nuova sfida è costruire insieme una metrica in grado di misurare questi benefici».
Oggi è necessario generare qualcosa che vada oltre il profitto, farsi portartori - e portatrici - di valori positivi, perché il pubblico è sempre più attento: «Soltanto il 40% dei consumatori valuta solamente il prodotto» ha detto Marcella Logli, direttore della divisione Responsabilità sociale di Telecom Italia: «Per il 60% contano anche altre caratteristiche del brand: le sue politiche ambientali e i suoi comportamenti virtuosi. Ma nel lungo periodo queste buone pratiche portano anche a benefici economici. Come? I fondi di investimento che in borsa sostengono le aziende premiano quelle che hanno comportamenti sostenibili».
Ma che ruolo possono avere le donne in questo cambiamento? Claudia Parzani, avvocatessa 42enne - «unica donna partner in Italia del prestigioso studio internazionale Linklaters», si legge in un suo ritratto pubblicato qualche mese fa dal mensile Style - e presidente di Valore D, ha spiegato cosa può fare la differenza in azienda: «Il “materno”, cioè la capacità di inclusione e sviluppo è una attitudine delle donne a prescindere dal fatto che siano o meno madri, è indispensabile nelle organizzazioni complesse».
Una battaglia che non è solo questione di ruolo, perché anche la mera presenza del gentil sesso al lavoro è ancora troppo bassa. Nella fascia fra i 15 e i 64 anni in Italia lavora il 64% degli uomini e solo il 46,6% delle donne. La dice lunga anche il tasso di inattività: quelle che non lavorano e non cercano attivamente un impiego sono il 46,1%. Praticamente una su due non ha un lavoro o non lo cerca perché disincentivata dalle condizioni del mercato, da una condizione fiscale che rende paradossalmente più conveniente il lavoro domestico del secondo stipendio. Dati che fanno ancora più impressione se confrontati con la media europea, dove il tasso di occupazione femminile è al 58,1%, quasi il 12% in più del nostro paese.
«Eppure ogni donna che lavora produce un 10% in più di posti di lavoro» ha detto Luisa Todini, presidente di Poste Italiane e membro del consiglio di amministrazione della Rai, che ha chiuso il suo intervento al dibattito lanciando un appello al Governo: «Una madre che sceglie di non rinunciare alla propria carrriera si deve creare una rete di sostegno rispetto alla cura della famiglia. Su questo deve puntare il governo perché il lavoro femminile aumenta la produttività, migliora l’economia e genera altri posti di lavoro».
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