Da mesi i media si occupano del programma Garanzia giovani. E la maggior parte delle volte non è per tesserne le lodi. «I giornali hanno attaccato da subito il progetto», è l'accusa dell'economista Enrico Giovannini, ministro del Lavoro in carica al momento della preparazione dell'avvio del progetto in Italia - mentre poi il lancio vero e proprio, lo scorso maggio, avvenne già sotto la gestione Poletti. E la ragione sarebbe per Giovannini l'eccessiva trasparenza: «Da subito sono stati monitorati i risultati, una cosa che non viene mai fatta per le politiche pubbliche. Per questo poi ne abbiamo pagato le conseguenze».
L'occasione per togliersi qualche sassolino dalla scarpa è la presentazione del volume Garanzia Giovani, la sfida, pubblicato pochi giorni fa da Brioschi. Un libro i cui autori sono stati parte attiva nell'attuazione di questa nuova politica del governo, di cui Bruxelles ha richiesto l'avvio a partire dalla scorsa primavera: Daniele Fano, capo della segreteria tecnica dell'ex ministro e rappresentante della Garanzia giovani per l'Italia in Europa; Elisa Gambardella, anche lei ex dello staff del ministro Giovannini e oggi riconfermata nella segreteria tecnica di Poletti, e infine Francesco Margiocco, giornalista specializzato nei temi scuola e università. Il riferimento è ai dati messi a disposizione da parte del ministero sul sito di Garanzia Giovani a ridosso della partenza del programma, dai quali si evince che le iscrizioni ammontano a 440mila – il numero è aggiornato all'inizio di marzo – mentre sono circa la metà - quindi 210mila - le prese in carico, cioè i giovani già «profilati» e pronti per essere piazzati sul mercato o in un qualche percorso di formazione.
A distanza di quasi un anno dall'apertura del programma ha dunque aderito un quarto dei ragazzi che in Italia non studiano e non lavorano (i Neet), i principali beneficiari del programma. Il risultato non è certo brillante, ma il libro appena pubblicato ha il merito di far riflettere su una questione: forse il Paese era impreparato all'avvento di quello che per la prima volta si è profilata come politica attiva per il lavoro. «Facevamo solo politiche passive, solo tavoli per la cassa integrazione in deroga», sottolinea Lucia Valente, assessore al Lavoro del Lazio, una delle relatrici alla presentazione: «Il piano europeo per i giovani è stato in tal senso visionario». Una conferma di questa linea di pensiero arriva anche da Irene Tinagli, deputata ora in quota Pd, ed ex membro della commissione Lavoro: «Prima si parlava solo di pensioni e mai di giovani», ammette.
Eppure 440mila adesioni in nove mesi a molti commentatori sembrano poche, e si punta il dito sulla scarsa comunicazione ai giovani dell'esistenza di questa possibilità, e sopratutto sulla scarsa capacità di intercettarli attraverso i canali informali e i siti e social network più frequentati. Eppure sarebbe stato controproducente, secondo Valente e Tinagli, pubblicizzare di più il programma, «perché non c'erano gli strumenti per metterlo in piedi». Meglio insomma procedere un passo alla volta.
Come al solito, del resto, non bisogna nascondersi che l'Italia è partita già indietro rispetto ai cugini europei: dal 1998 ad esempio in Inghilterra esisteva «il cosiddetto 'New Deal degli under 25', programma da mezzo milione di sterline l’anno che offre ai giovani, disoccupati da almeno un semestre, quattro mesi di orientamento intensivo con un personal adviser, seguiti da un’offerta di lavoro o da una tra le seguenti quattro opzioni sovvenzionate della durata di sei mesi l’una», viene ricordato nel libro.
Il panorama che Giovannini si è trovato davanti era quello di «un sistema di centri per l'impiego che occupava circa 10mila persone», evidenzia l'ex ministro, quando in Germania (un Paese con solo il 20% di popolazione in più dell'Italia) ce ne sono 90mila. È chiaro dunque che il paese era – e probabilmente è ancora – inadeguato a ricevere una proposta simile dall'Europa. «L'unica alternativa era mettere in campo anche i servizi privati di orientamento al lavoro, ovvero le agenzie interinali» afferma l'assessore Valente: «per cui in Lazio per esempio è stato adottato per la prima volta un sistema di accreditamento».
Non sono mancate le resistenze, sia a livello regionale che provinciale, che Giovannini afferma di aver sperimentato in prima persona: «Le Regioni, e questo è stato il primo scoglio da aggirare, sono storicamente gelose delle proprie competenze e del proprio ruolo in materia di lavoro e politiche sociali» ha detto chiaro e tondo l'ex ministro. Un «ostacolo culturale» che si è provato a superare, negli ultimi mesi, anche grazie alla creazione di una piattaforma nazionale in cui sincronizzare tutti i dati dei centri per l'impiego e facilitare il matching di domanda e offerta di lavoro anche a livello extraregionale. E che, va dato atto, prima di Garanzia Giovani non esisteva.
Non c'è dubbio che dei passi in avanti siano stati fatti sul fronte delle politiche attive per il lavoro, in quello che «era un deserto e invece ora è un terreno arato: i frutti non potevano arrivare da subito», ragiona la Valente. Ma il punto è capire se i media hanno avuto ragione a considerare il programma un flop. «Per valutare il successo di un piano come Garanzia Giovani bisogna capirne bene ambito e obiettivi rispetto alla popolazione target, i Neet» si legge nei primi capitoli del libro.
Ma non sarà l'occupazione a dare la cifra dei risultati, bensì l'occupabilità: «Garanzia Giovani può favorire l’occupazione essenzialmente solo nella misura in cui contribuisce a ridurre il cosiddetto mismatch delle competenze» scrivono gli autori, perché «l’occupabilità è il vero obiettivo del programma, il cuore della sfida». In questo senso «i percorsi di istruzione e formazione hanno un peso centrale». Gli stessi che si sta tentando di riformare (con La buona scuola di Renzi), ma con strumenti – è il parere di Tullio De Mauro, linguista intervistato nel libro e presente al dibattito – a loro volta «chilometri lontani dal vero obiettivo», che è rendere competitivi a livello internazionale i ragazzi della scuola superiore, i meno preparati secondo le classifiche europee.
La domanda però resta: anche se Garanzia Giovani si ferma nelle sue finalità al miglioramento del mismatch, e crea giovani più orientati ma che poi non debuttano mai sul mercato del lavoro, si può davvero dire in tutta onestà che assolva al suo ruolo di "garanzia"?
Ilaria Mariotti
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