A guardare i dati italiani sul gender pay gap (la discriminazione retributiva tra uomini e donne a parità di mansioni) sembrerebbe quasi che l'Italia una volta tanto sia messa meno peggio degli altri Paesi. Nel 2011 la disparità di salario si attestava a quota 5,8%, più o meno stabile nella serie storica (nel 2008 era del 5,1%, e su valori simili anche nei periodi successivi). Una cifra che pur riferendosi al solo settore dell'industria, delle costruzioni e dei servizi, risulta di molto inferiore alla media europea, pari al 16,2%, o a quella di altri Paesi più avanzati sul piano economico come la Germania, dove raggiunge il 22%.
L'apparenza però mai come in questo caso può ingannare. E a sottolinearlo è la Consigliera nazionale di parità, figura istituita nel 2006 «per la promozione e il controllo dell’attuazione dei principi di uguaglianza di opportunità e non discriminazione per uomini e donne nel mondo del lavoro». L'occasione è stata la conferenza prenatalizia di presentazione delle misure per l'occupazione femminile messe in campo dal ministero del Lavoro, dove insieme alla presidente nazionale dei consulenti del lavoro Marina Calderone ha approfondito la questione.
«È vero che la disparità salariale è solo al 5,8 ma bisogna tener conto che in Italia le donne lavorano meno ed escono prima dal mercato» ha evidenziato la Calderone, ricordando come quella classifica elaborata incrociando le statistiche Inps, Istat, Eurostat e ministero del Lavoro fornisca la fotografia di una realtà parziale. E i rapporti sullo stato della disoccupazione lo confermano: secondo l'Istat nel 2013 gli occupati maschi erano più di 13 milioni, contro i 9 milioni di donne, che tra gli inattivi sono addirittura quasi il doppio, 9 milioni contro 5 di uomini. E questo nonostante la popolazione femminile sia superiore a quella maschile (31 milioni contro 29, secondo l'Istat, a dicembre 2010).
C'è poi da prendere in considerazione un altro aspetto della disparità retributiva, come messo in luce dall'Eurostat: la sottile - a prima vista - differenza tra salario delle donne e degli uomini schizza improvvisamente in alto quando si analizza il mercato occupazionale dividendolo tra pubblico e privato, e il livello si porta a 3,8 nel primo caso e a ben 16,7 nel secondo. E la stessa subisce ulteriori fortissime variazioni se si prendono in considerazione altri criteri come l'età (qui il gender pay gap nel 2011 risulta specialmente concentrato nella fascia 25-34 anni), o gli ambiti lavorativi. L'istituto di ricerca segnala come una donna che lavora ad esempio nella manifattura percepisca il 14% in meno di un uomo (anche se in Germania ha vita ancor più dura: qui il salario diverge di 27 punti percentuali). C'è di peggio, come nel settore finanziario e assicurativo - dove si arriva fino al 23% in meno – o in altri settori designati come «altri servizi» dove il gap tocca il 26%. Una lettura più attenta delle rilevazioni indica quindi come la verità sia più complicata di come sembra e la strada per raggiungere una sostanziale parità tra uomini e donne nel mondo del lavoro sia molto lunga.
Ancora una volta l'Europa cerca di correre ai ripari, fissando l'annullamento delle differenze retributive tra gli obiettivi da raggiungere entro il 2020, e dunque pungolando l'Italia e gli altri Paesi con performance più deludenti in questo campo. Una mini guida contro la disuguaglianza salariale recentemente predisposta dal ministero ricorda infatti che «la parità retributiva tra lavoratori e lavoratrici è inserita tra le priorità della Strategia Europea 2020 ed è uno degli obiettivi della road map 2011-2015 relativamente ad occupazione e diritti sociali». Uno dei passi per annullare lo scarto sarà per esempio quello di indagare sulla struttura – complicatissima in Italia – delle buste paga. Ad annunciare la creazione di una commissione ad hoc in questo senso, orientata anche al miglioramento delle possibilità di concilizazione vita-lavoro per le donne, è stata la consigliera nazionale di parità Alessandra Servidori: nel 2014 sarà avviata una «task force di consulenti e ispettori da inviare sui luoghi di lavoro per sapere come è fatta la busta paga, operativamente parlando e con strumenti che tutti capiscono» ha detto alla conferenza. Come spiega il vademecum, la retribuzione lorda si compone infatti da una parte di elementi fissi, tarati sulla contrattazione collettiva nazionale o di secondo livello (un esempio sono gli scatti di anzianità), e da elementi variabili, «spesso frutto di una scelta unilaterale del datore di lavoro o di una negoziazione tra le parti», chiarisce la guida, come ad esempio i premi di produttività o i superminimi.
Ed è qui che la questione si fa come ovvio più scottante. Perchè se la fetta del salario determinata dai contratti collettivi non può dipendere dal sesso dei dipendenti, il discorso cambia per quel segmento della retribuzione non predeterminato, che può essere invece utilizzato «per discriminare sotto il profilo retributivo le lavoratrici», dice chiaro e tondo l'opuscolo: «Pertanto è a questi elementi che bisogna guardare con particolare attenzione per verificare eventuali discriminazioni salariali di genere». Anche perché un trattamento diseguale a seconda del genere comporta anche un impoverimento generale del Paese dal momento che questa distanza si riflette, come ha ricordato la presidente dell'Ordine dei consulenti del lavoro, «sulle pensioni del futuro».
Gli addetti ai lavori non dovranno comunque creare niente di nuovo. Si tratta di sensibilizzare i cittadini su «una visione culturale», ha aggiunto la Calderone, perché gli strumenti normativi per far rispettare l'uguaglianza in ambito lavorativo ci sono già. Non solo l'articolo 36 della Costituzione, che sancisce il principio di una «retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto», ma anche il 37 comma 1, che vale la pena riportare: «La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore».
Senza dover aspettare i mesi necessari all'attuazione delle misure, per le donne discriminate dal punto di vista salariale è possibile sin da ora fare qualcosa, iniziando con una segnalazione. La via è rivolgersi alla Consigliera di Parità, alle Direzioni territoriali del lavoro, o all'Ordine provinciale dei Consulenti del lavoro, e tradurre così le chiacchiere nei «fatti concreti» auspicati da Marina Calderone - e da tutti coloro che hanno a cuore il problema dell'equità retributiva.
Ilaria Mariotti
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