L'Italia deve investire di più in istruzione superiore e ricerca o rischierà di non avere futuro. Lo scenario è quello delineato dal consorzio Almalaurea, che si pone quale punto di incontro tra laureati, università e aziende. A Pollenzo, sede dell'università di Scienze gastronomiche, opportunità e sfide dell'istruzione universitaria sono state sintetizzate nel corso del convegno organizzato per presentare il XVI Rapporto AlmaLaurea sul profilo dei laureati italiani, basato sui dati relativi al 2013.
230mila laureati coinvolti nell'indagine (132mila di primo livello, 65mila magistrali biennali e 24mila magistrali a ciclo unico), 64 atenei aderenti. L'analisi del consorzio accerta le caratteristiche del capitale umano formatosi nel sistema italiano nel 2013, confrontandolo talvolta con i dati dei laureati pre-riforma 2014.
Il contesto in cui sono inserite le valutazioni è abbastanza negativo. Parlare di crisi di sistema è evidente sulla base di alcuni dati: oggi, solo tre diciannovenni su dieci si immatricolano all'università. Dal 2003, anno di picco con 338 mila immatricolati, al 2012 (270 mila) il calo è stato del 20%: effetto combinato del calo demografico, della diminuzione degli immatricolati in età più adulta, del deterioramento delle prospettive occupazionali dei laureati, «della difficoltà crescente di molte famiglie a sostenere i costi dell'istruzione universitaria e di una politica del diritto allo studio sempre più inesistente», come aggiunge Andrea Cammelli, direttore di Almalaurea.
Il basso livello di scolarizzazione della società italiana è testimoniato dal ridotto numero di laureati nella fascia d'età 25-34 anni: 21% in Italia contro una media Ocse del 39%. L'obiettivo fissato dalla Commissione europea per il 2020, raggiungere il 40% di laureati nella popolazione di età 30-34 anni, pare a questo punto impossibile anche solo da avvicinare.
Anche perché studiare in Italia costa ancora troppo: i giovani e le famiglie sono sottoposti a una pressione inedita in merito alla qualità delle scelte formative e alla trasmissione di abilità utili per l'inserimento nel mercato del lavoro.
In molti ragazzi dunque si manifesta, in modo sempre crescente, un interesse minore per gli studi universitari; considerazione sostenuta dal difficile inserimento nel mondo del lavoro, se si pensa che il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) nel solo 2013 è cresciuto di 4,5 punti percentuali, toccando il 40%, e che nel triennio 2011-2013 le posizioni lavorative sono scese del 6,7%, cioè quasi 586mila unità in meno. Sempre l'Istat fa sapere che in termini assoluti gli occupati della fascia anagrafica 15-34 anni sono diminuiti, fra il 2008 e il 2013, di 1 milione 803mila unità, e che il tasso di occupazione 15-34 anni è sceso dal (già basso in confronto agli altri Paesi europei) 50,4% del 2008 all’attuale (bassissimo) 40,2%.
Un quadro scoraggiante insomma. Secondo i dati proposti dal rapporto Almalaurea, però, un titolo di studio universitario «tutela il giovane sul mercato del lavoro più di quanto non faccia il solo diploma» come sottolinea Cammelli: «I laureati continuano a godere di vantaggi occupazionali rispetto ai diplomati sia nell'arco della vita lavorativa sia e ancor più, nelle fasi congiunturali negative come quella attuale».
Ma c'è anche qualche aspetto confortante nello scenario presentato nell'indagine: aumenta per esempio la quota di giovani che terminano gli studi nei tempi previsti, mentre diminuisce la quota di laureati che terminano gli studi con un numero alto di anni fuori corso; diventa più frequente la partecipazione alle lezioni; si estende la quota di stage e tirocini svolti durante gli studi e si mantiene costante la tendenza ad avvantaggiarsi delle opportunità di studio e di lavoro all'estero. In parallelo, ma non in assoluto rispetto ad altri paesi, cresce la capacità attrattiva degli atenei italiani relativamente agli studenti laureati in arrivo dall'estero (la metà considerando i livelli Ocse).
«Il bilancio complessivo del Rapporto evidenzia i miglioramenti registrati dall'età alla laurea e dalla regolarità negli studi, aspetti storicamente dolenti dell'intero sistema universitario nazionale pre-riforma», commenta Andrea Cammelli. «A sottolineare la crescente, positiva collaborazione fra università e mondo del lavoro è invece la crescita delle esperienze di tirocinio e stage condotte soprattutto al di fuori dell'ambiente universitario».
I laureati che hanno svolto tirocini riconosciuti dal proprio corso di studi nel 2013 sono stati il 61% di quelli di primo livello; il 41% dei magistrali a ciclo unico e il 56% dei magistrali (71% considerando anche coloro che l'hanno svolta solo nel triennio). Fra i laureati pre-riforma del 2004, erano solo uno su cinque. Un balzo in avanti importante se si considera che, secondo l'indagine, il tirocinio consente di aumentare le chance di trovare lavoro, ad un anno dal titolo, del 14%.
«Lo scenario presente e futuro, nonostante i miglioramenti registrati, resta tuttavia estremamente incerto», chiarisce Cammelli. «E' vero che la formazione dei manager sta migliorando, negli ultimi due anni quelli in possesso di laurea sono passati dal 14,7% del 2010 al 24,5% del 2012, ma dobbiamo ancora recuperare un ritardo storico rispetto agli altri paesi dell'Ocse. Possono imprenditori non laureati apprezzare il valore di un titolo universitario?».
Marilena De Giorgio
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