
Ilaria Mariotti
Scritto il 07 Mar 2025 in Notizie
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Cosa scoraggia gli expat dal rientrare? In primis la sensazione di essere scarsamente considerati in patria. «Quando intervisto giovani altamente scolarizzati che si sono trasferiti all’estero, la prima cosa che dicono è questo» dice Giustina Orientale Caputo, docente di Sociologia del lavoro alla Federico II di Napoli. L’occasione di dibattito è il convegno "@Migrazione da fenomeno sociale a fenomeno identitario" tenutosi, organizzato qualche settimana a Roma da Inps e Fondazione Migrantes. Con una chiocciola nel titolo a sottolineare la centralità della digitalizzazione anche nella mobilità internazionale.
La riflessione è sui flussi migratori, studiati dal Rapporto Italiani nel Mondo della Fondazione Migrantes, in relazione con il calo demografico e con i dati sulle pensioni pagate a chi resta oltre confine. L’Italia «crocevia è sempre stata» prosegue Caputo: le migrazioni vanno avanti da un secolo e mezzo, «questa è la terza fase, dopo quella a inizi Novecento e quella degli anni Cinquanta-Sessanta». Ma va un po’ smontata l’idea che partano solo i laureati: «è così in percentuale solo perché è nel complesso aumentato il livello di scolarizzazione».
Il vero problema che si continua a porre è un altro: non l’espatrio in sé, che non è un male: conoscere il mondo ci si arricchisce nell'anima. Ma nel punto dove si inceppa il meccanismo – nella "ferita migratoria”, come la definiscono gli autori del Rapporto Italiani nel Mondo. Cioè nel fatto che alla partenza non faccia quasi mai da contraltare un ritorno, «e la causa è quasi sempre il mercato del lavoro, che produce l’effetto spinta» riflette la professoressa. I numeri sull’occupazione italiana sono da tempo positivi «solo in apparenza: la verità è che a salire è l’occupazione degli ultracinquantenni, mentre per i giovani cresce l’inattività e la disoccupazione cala troppo poco». È su questo che bisogna interrogarsi, afferma Caputo. «Altrimenti le scelte dei giovani ci si ritorceranno contro».
Mancano le ragioni per rientrare e lo spopolamento avanza. La fotografia di quello che per gli esperti ormai non è più un inverno ma un vero “congelamento demografico” la fornisce il giornalista Paolo Pagliaro, direttore di 9 Colonne: “Quarant’anni fa vivevano in Italia 15 milioni di bambini e adolescenti, mentre oggi ce ne sono dieci». E se i pensionati erano un quarto della popolazione «oggi sono un terzo». Un’emergenza demografica da non prendere sottogamba: «È in potenza più insidiosa di qualunque crisi economica, perché per certi versi irrimediabile». Senza giovani, chi pagherà le pensioni e sosterrà i bisogni di una popolazione sempre più anziana?
Ma di denatalità e dintorni la politica si interessa poco, sottolinea Pagliaro. Mentre nel frattempo si infoltisce la comunità di italiani all’estero, arrivata a sei milioni di persone. «Con in media 100mila italiani all’anno che dal 2006 spostano la propria residenza fuori dai confini con la sola motivazione dell’espatrio» ricorda Delfina Licata, curatrice del Rapporto Italiani nel Mondo. Un flusso la cui metà «è composta da persone tra i 18 e i 34 anni». Basta «essere miopi, ragionare per compartimenti stagni» è il monito di monsignor Gian Carlo Perego, presidente della Fondazione Migrantes. L’Italia deve tornare a essere attrattiva, puntando anche su questioni come fiscalità e previdenza. Ne è certo Luigi Maria Vignali, direttore generale per gli italiani all’estero del Maeci: «Nessun connazionale all’estero dimentica mai l’opportunità di rientrare» afferma. «Chi vive fuori non vuole sentirsi italiano minore e in tal senso sono importanti gli incentivi fiscali e anche le opportunità previdenziali».
In tanti si chiedono per esempio che fine facciano i contributi previdenziali, per esempio quelli versati da una persona che prima lavora e versato contributi per qualche anno in Italia, e poi si trasferisce all’estero. Vanno perduti? «Si sta lavorando in maniera crescente sul regime internazionale» prova a rassicurare Massimo Colitti, dirigente dell’area pensioni all’estero Inps. In questo modo si liquideranno in futuro «i periodi assicurativi non sovrapposti maturati in Italia e in altri Paesi». Un sistema che ben aderisce al tipo di mobilità odierno, caratterizzato da spostamenti continui.
Il mercato del lavoro d’altronde è cambiato e lo ribadisce Vito La Monica, direttore pensioni Inps: si sono «destrutturati i rapporti di lavoro subordinati a cui eravamo abituati, e oggi si è nomadi digitali; al posto delle persone fisiche ci sono algoritmi a determinare il lavoro». Ma che i giovani non avranno mai una pensione «è una fake news». Per loro si profila una pensione non più retributiva bensì di tipo contributivo. Su cui, assicura, deve esserci ottimismo: «Si percepirà in base al montante accumulato, non più a seconda di quanto guadagnato negli ultimi anni di vita». Non importa che la carriera sia lineare e che si arrivi a guadagnare di più con il tempo. A contare è la somma totale che si ottiene.
La rassicurazione circa il buon funzionamento del sistema previdenziale contributivo può bastare a convincere chi vive fuori dall'Italia al rientro? La posizione della sociologa Giustina Orientale Caputo è cauta: «Non sempre si è in grado di governare la propria vita scegliendo; e c'è differenza tra chi può accedere e chi non a determinate condizioni di lavoro» ricorda Caputo.
Su un punto c’è una certezza: «L’estero è ciò che ha sostituito l’ascensore sociale, in Italia bloccato» sottolinea Pagliaro. «Andarsene diventa inevitabile, con tutto lo spreco di capitale umano che comporta». Anche sul piano finanziario, perché questa emorragia di persone, non controbilanciata dall'accoglienza di altrettante persone – con istruzione e competenze simili – straniere in Italia, equivale anche a un'emorragia di contributi, che anziché esssere versati nelle casse dell'Inps e degli altri istituti di previdenza italiani finiscono inevitabilmente nelle casse di altri Paesi.
Ilaria Mariotti
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