«Ci sono dei neolaureati in ingegneria che una vite non l'han mai vista: c'è davvero un impatto fortissimo tra formazione e mondo del lavoro»: lapidario, anche se il tono è scherzoso, è il commento di Paolo Citterio alla presentazione della ricerca annuale di Gidp sui neolaureati in azienda. Gidp, gruppo intersettoriale direttori del personale, è una associazione che federa oltre 3mila direttori del personale di aziende medio-grandi, ubicate sopratutto in Lombardia: a loro viene ogni anno somministrato un questionario per indagare le tendenze e le policy rispetto all'inserimento di giovani in azienda. Dall'utilizzo dello stage alla trasformazione in contratto, dai livelli salariali alle lacune che gli hr manager rilevano nella preparazione dei candidati: la ricerca [qui i principali risultati], pur non essendo basata su un campione rappresentativo, risulta comunque sempre una interessante cartina di tornasole per fare luce su come le aziende si rapportano ai giovani, anche in considerazioni delle novità normative. E l'evento di presentazione è sempre anche una buona occasione di approfondimento, con relatori autorevoli: quest'anno i temi di dibattito principali sono stati come prevedibile il Jobs Act, la riforma della Buona scuola e la Garanzia Giovani.
«Anche se ovviamente sono molti e complessi i fattori che determinano la ripartenza dell'occupazione, il contratto a tutele crescenti ha reso meno drammatica la scelta verso l'assunzione»: così ha esordito Maurizio Del Conte, avvocato e docente di Diritto del lavoro dell'università Bocconi, ricordando peraltro che «c'è una sostenuta richiesta, tuttora, sul contratto a tempo determinato: le aziende sono sufficientemente mature, oggi, per distinguere tra necessità temporanea e prospettiva di stabilità». Insomma «le imprese sono più intelligenti di quanto i commentatori non le facciano»: il riferimento è ai molti giornali che, più o meno schierati contro il JobsAct, hanno predetto che al termine dei tre anni - cioè della fase di incentivi contributivi - le aziende si disferanno dei dipendenti assunti in questi mesi con il contratto a tutele crescenti. «Chi oggi ha investito in questo contratto ha sicuramente tratto vantaggio dalle decontribuzioni e dalla facilità di licenziamento, ma lo ha fatto in una prospettiva di lungo periodo» ha ribadito Del Conte: «Prima il sistema dava una forte disincentivazione a usare contratti a tempo indeterminato, vi era una grande concorrenza da parte dei cocopro e di molte altre tipologie che costavano meno. Oggi invece il clima è cambiato, almeno parzialmente». Togliendosi anche un altro sassolino dalla scarpa, relativo al balletto di cifre che quotidianamente va in scena attraverso i media: «Noi oggi lavoriamo sulle emozioni del giorno, crisi greca, crisi cinese… Bisognerebbe invece avere più attenzione alla media dei diagrammi che non alle loro oscillazioni. Guardare troppo le rilevazioni settimanali o mensili dell'Istat o del ministero del Lavoro non dà un quadro veritiero».
Un parere in larga parte condiviso anche da Gianfranco Rossini, esperto di valutazione HR e di settore pubblico: «Il contratto a tutele crescenti chiude la fase dei contratti temporanei, un processo che era già stato parzialmente avviato con la riforma Fornero. Inoltre riduce il costo del lavoro, adesso la decontribuzione è temporanea ma con tutta probabilità si andrà verso una riduzione stabile del costo. E infine dà alle aziende una certezza dei costi. Tre elementi che sono a favore di questo contratto e il legislatore è stato intelligente, ha messo la sostanza della flessibilità dei contratti di lavoro in una forma più stabile».
Ma il contratto a tutele crescenti non è l'unico contratto in discussione in questi giorni. «Noi ci ostiniamo a pensare, senza nulla togliere a questa novità, che l'apprendistato sia il contratto più giusto per i giovani per il ruolo della formazione» è la posizione espressa da Chiara Manfredda, responsabile capitale umano di Assolombarda: «Non vogliamo certamente imporlo, ma auspichiamo una ulteriore semplificazione. Abbiamo un progetto del nostro piano strategico che si chiama “apprendistato semplice”, per fare in modo che le aziende lo usino come strumento privilegiato per l'inserimento dei giovani». L'apprendistato e il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti sono insomma «due opportunità» per i giovani, per poter essere assunti con tutti i crismi e poter contare su garanzie solide: «Dal punto di vista del vantaggio del contenimento dei costi, il contratto di apprendistato è stato cannibalizzato dal contratto a tutele crescenti, quantomeno per il 2015».
Ma la Manfredda è convinta che vi siano ancora grandi spazi di crescita per l'apprendistato, sopratutto in collaborazione con il mondo universitario: «Stiamo avviando in Lombardia una sperimentazione pilota: inseriremo una ventina di ragazzi in un percorso di alternanza all'interno del corso di laurea triennale in informatica della Statale». Pare infatti che il corso di laurea abbia un problema (che molti giovani potrebbero considerare benedetto!): «Gli iscritti spesso non lo completano, perché vanno a lavorare prima di laurearsi». Il progetto di Assolombarda si propone di cercare di far raggiungere a questi studenti il titolo di studio: «Il primo anno i ragazzi saranno impegnati solo in università, il secondo anno stiamo ragionando con le aziende partner, tra cui Bosch, su un tirocinio curriculare, e nel terzo anno avvieremo un apprendistato di alta formazione». Al termine dei tre anni, dunque, questi 20 studenti inseriti nel pilota avranno non solo la laurea in tasca, ma anche un bagaglio di competenze pratiche molto più ricco: «Consideriamo questo progetto una occasione per rivitalizzare il contratto di alto apprendistato».
Ancor prima dell'apprendistato c'è però la formazione, e ancor prima della formazione c'è l'orientamento: su questa direttrice Roberto Zecchino, HR manager del gruppo Bosch in Italia - azienda virtuosa che dallo scorso anno fa anche parte dell'RdS network - ha raccontato il progetto “Allenarsi per il futuro”: «Siamo partiti dalla problematica della disoccupazione giovanile. Abbiamo fatto 105 visite a scuole, dalle medie alle università, perfino due scuole elementari, incontrando finora 11mila studenti. A loro lo diciamo apertamente: l'avversario da sconfiggere, il 44% di disoccupazione giovanile, è tostissimo». Il fulcro del progetto è entrare in contatto con questi giovanissimi e gettare un seme: «Usiamo i grandi campioni dello sport per avere l'attenzione dei ragazzi e perché attraverso la metafora dello sport si passa il messaggio che non si diventa campioni dalla sera alla mattina, ci vuole concentrazione e spirito di sacrificio. Anche il racconto di saper accettare le sconfitte rappresenta un esempio e una ispirazione. Ai ragazzi dobbiamo dire che bisogna avere dei progetti, e anche le aziende devono fare la propria parte: vanno bene gli stage per i neolaureati ma è già troppo tardi, dobbiamo aiutare i ragazzi già quando hanno 14-15 anni. Ci piacerebbe che molte più aziende partecipassero a queste nostre piccolissime attività, che venissero con noi nelle scuole: il costo, lo assicuriamo, è molto basso».
All'interno di Bosch anche la possibilità di fare quelle speciali brevi esperienze on the job pensate per gli studenti delle scuole superiori, la cosiddetta "alternanza scuola-lavoro": «Abbiamo attivato ad oggi 110 stage in alternanza: ospitiamo ragazzi del liceo classico, dell'artistico, dello scientifico. Anche gli amministratori delegati e i manager si prendono sotto la propria ala questi ragazzi, ospitandoli nel proprio ufficio. A volte questi percorsi durano 2-3 settimane, a volte solo 5 giorni, in un format che abbiamo chiamato “dammi il cinque”. I genitori e gli stessi ragazzi sono entusiasti». Ma secondo Zecchino ci vuole pazienza, non si può pensare di importare dall'oggi al domani in Italia il modello duale alla tedesca, che molti invocano: «Il modello duale è un'altra cosa, ci vuole del tempo per arrivarci: sarebbe come non avete la patente e voler guidare una Ferrari».
Una piccola stoccata alla legge sulla Buona Scuola, appena licenziata dal Parlamento? «Per quanto riguarda l'impegno delle aziende sulla collaborazione con il sistema formativo, nella Buona scuola c'è una sfida enorme per il sistema imprese» è la considerazione di Chiara Manfredda: «Sono state rese obbligatorie 400 ore di alternanza scuola-lavoro per gli istituti tecnici professionali e 200 ore per i licei». La rappresentante di Assolombarda considera l'alternanza «una cosa completamente diversa dai tirocini», essenzialmente perché essa implica l'obbligo di «coprogettare dei percorsi che mettano insieme scuole e aziende con la finalità di far apprendere in modi e luoghi diversi: il tema della coprogettazione è importantissimo. Le aziende saranno sollecitate a lavorare con le scuole del territorio». Ma questa «alternanza pesante», secondo la definizione della Manfredda, non sarà realizzabile inviando tutti i ragazzi a fare 2,3 o 6 settimane nelle aziende. Non tutti perlomeno, e non subito: «Nell'ambito delle nostre imprese ospitiamo ogni anno 4mila ragazzi in alternanza, sono numeri importanti», ma assolutamente irrisori di fronte all'esercito di giovani che dal prossimo anno dovrà essere coinvolto in questa alternanza: basti pensare che solo i 16enni oggi in Italia sono 572mila (dati Istat). Comprensibile dunque che la Manfredda metta le mani avanti: «Numericamente e quantitativamente non ce la faremo: stiamo allora sviluppando il discorso della didattica laboratoriale, senza spostare necessariamente i ragazzi del quarto e quinto anno di scuola superiore nelle aziende». E se la Buona Scuola è comunque un passo avanti per riformare la scuola secondaria, non bisogna dimenticare l'università: «Sul 3+2 universitario dobbiamo recuperare il tempo del 3» chiude: «Se nessuno si ferma dopo il 3 vuol dire che qualcosa non va. Vanno fortemente riabilitate le triennali, altrimenti la riforma del 199 non avrà significato nulla».
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