Un ministro dell'Istruzione che si rallegra per i risultati delle prestigiose borse di studio ERC, perché tra i vincitori ci sono numerosi italiani. Una ricercatrice – Roberta D'Alessandro, vincitrice di 2 milioni di euro per portare avanti una ricerca in linguistica – che sul suo profilo Facebook contesta il ministro con parole dure: «La prego di non vantarsi dei miei risultati. La mia Erc e quella del collega Francesco Berto sono olandesi, non italiane. L'Italia non ci ha voluto, preferendoci, nei vari concorsi, persone che nella lista degli assegnatari dei fondi ERC non compaiono, né compariranno mai. E così, io, Francesco e l'altra collega, Arianna Betti [...] in 2 mesi abbiamo ottenuto 6 milioni di euro di fondi, che useremo in Olanda. L'Italia ne può evidentemente fare a meno». La polemica è rapidamente passata dai social network al mondo dell'informazione e il dibattito si è focalizzato sulla fuga dei cervelli. La D'Alessandro (che in realtà definire “ricercatrice” è quasi riduttivo, dato che è “Full Professor” – l'equivalente del nostro professore ordinario) oggi infatti vive e lavora in Olanda, dopo essere stata "rigettata" dal sistema universitario italiano: un sistema che predilige la fedeltà al merito, e che ancora troppo spesso fa passare i raccomandati, o i leccapiedi, davanti agli outsider, quelli capaci magari di arrivare a vincere borse di studio milionarie. La Repubblica degli Stagisti ne ha parlato con Matteo Fini, classe 1978, già autore del libro Non è un Paese per bamboccioni (sottotitolo: «Storie di giovani italiani che ce l’hanno fatta nonostante tutto») e quasi-autore di un libro di denuncia sull'assenza di meritocrazia nell'università italiana: un libro che è riuscito nell'ardua impresa di scatenare un feroce dibattito ancor prima di uscire in libreria.
Come e quando hai visto la notizia della rispostaccia di Roberta D'Alessandro alla ministra Giannini?
Me l'hanno taggata su Facebook in centinaia dei miei contatti. Da quando sono sorto mio malgrado agli onori della cronaca per le mie disavventure a livello "accademico-letterario", e in special modo da quando è uscito l'articolo dell'Espresso in cui racconto la storia di università e denunce, in centinaia mi vedono un po' come il paladino dei precari dell'università e ogni notizia sul tema mi viene girata a sostegno!
E cos'hai pensato?
Che è una storia bellissima. Nel senso che non c'è davvero limite alla vergogna... I ricercatori italiani vivono costantemente nel disagio, non sono ascoltati e nessuno li aiuta. Poi all'improvviso uno su mille ha un vago successo e questi qui se ne appropriano subito! La ragazza oltretutto ha risposto sì piccata, ma anche con ironia e consapevolezza. Dalle interviste e dai post si evince chiaramente. Ho apprezzato molto.
Hai trovato in questa denuncia qualche assonanza con il tuo "Università e Puttane", lo spettacolo che hai basato sul tuo “libro che non c'è” sui concorsi e sull'università italiana?
Assolutamente sì. Soprattutto nella seconda parte, dove lei denuncia non tanto lo schifo per essere stata presa in considerazione solo ora che ha vinto qualcosa, ma gli sgarbi passati tipici dell'ambiente accademico. Chi non è addentro al sistema può pensare siano solo lagne, ma in realtà c'è molto di più. É un “sistema”, appunto. E poi riconosco l'ondata di affetto che a mezzo social le si è riversata addosso. Ha ragione quando dice "se è uno su mille a lamentarsi è un frustrato, ma se sono 900 su mille forse qualcosina che non va c'è..." – cito a memoria – e negarlo non è da miopi, ma da farabutti.
A proposito, il libro che non c'è prima o poi ci sarà? Com'è la situazione delle querele preventive?
Il libro potrebbe uscire anche domani. Ma ormai è quasi più bello così... è #illibrochenonce. Da una situazione davvero fastidiosa, mortificante e, dico la verità, pericolosa e opprimente – ricevere lettere di avvocati per un libro che ancora non hai pubblicato ma solo per l'idea di voler parlar di un tema è davvero turbante, "Manco Stalin!" ha urlato una volta uno dei miei avvocati... – è nata tutta una storia nuova, bellissima. Dalle diffide alla pubblicazione dei professoroni del circolino siamo passati alle migliaia di lettere di affetto e sostegno di chi rivede e rivive storie proprie e poi, soprattutto, questa storia si è tramutata nel piccolo spettacolo che sto portando in giro e davvero non hai idea quanta soddisfazione e affetto mi stia dando. Ora ho quasi paura che se il libro uscisse davvero la gente dica "va beh, tutto qui?".
Torniamo alla D'Alessandro. Il direttore de Linkiesta Francesco Cancellato ha scritto in un editoriale che, pur denunciando una situazione effettivamente vergognosa, la ricercatrice alla fine lo ha fatto troppo tardi, dopo aver subìto la situazione ed aver risolto con la “fuga”. Sei d'accordo?
Secondo me si mischiano due questioni. La D'Alessandro si è rivolta alla politica solo perchè è stato un ministro a parlare e lei ha risposto. I baroni sono più furbi, stanno in silenzio, si rotolano nel fango, sanno che la buriana prima o poi passa, tu sparisci, loro rimangono e tutto resta immutato, come succede da quarant'anni. Parlarne rischierebbe solo di amplificare, e non è quello che vogliono. Per quanto riguarda rivolgere invece un attacco ai “baroni”, certo, lo si può sempre fare. Ma loro sono troppi, con troppo tempo a disposizione. Tu sei solo e alla fine molli per forza. Devi pensare a costruirti un futuro tuo. Il problema é che quando inizi a lavorare in università tu ci credi veramente, solo dopo capisci come funziona; ma ormai sei come già complice e non puoi uscirne bene.
Tu sei stato ricercatore in statistica, ma a un certo punto hai deciso di dire basta.
Sì. Puoi andartene all'estero come ha fatto la D'Alessandro, puoi abbandonare tutto come ho fatto io. Ecco, io più che aver preferito la fuga alla lotta ho scelto la “fuga totale” e la lotta. Ma sia chiaro: il mio libro è nato per la voglia di discutere di un tema, non per rivendicare una posizione o un lavoro. Se poi in futuro qualcuno ne beneficerà sarò contento. Sicuramente, come dice Cancellato, se te ne vai quelli che rimangono brindano tutti.
Tu hai scelto di non stare zitto, anzi, di denunciare pubblicamente la situazione grottesca dell'università italiana. Pensi che troppi ancora stiano al gioco?
Non troppi: tutti. Per stare in università devi stare al gioco. Anche se sei bravo. Soprattutto se sei bravo. Devi buttare giù e farti andar bene gli ingranaggi del sistema. Lo dico anche nel libro: «Nessuno lavora in università perchè è bravo. A volte è anche bravo». E se ci pensi è mortificante – per chi è bravo e viene scartato, ma quasi di più per chi è bravo e ce la fa a entrare. Perchè sa che non è lì per merito suo e vivrà tutta la vita con questo peso addosso.
Dove sta il confine tra il normale viaggiare dei cervelli, seguendo percorsi internazionali di ricerca, e invece la patologia riassunta dalla D'Alessandro nella frase «Cara Italia, vorrei vivere a casa, ma mi hai cacciata tu»?
Io non penso che emigrare all'estero sia una scelta forzata o di serie B. É una delle opzioni. Chi fa ricerca, ma probabilmente chiunque in qualsiasi campo sia aperto mentalmente per capire che nel 21esimo secolo i confini non son più quelli dell'appezzamento di terra del papà vassallo, sa benissimo che c'è questa possibilità: e molto spesso non è una fuga, ma una scelta. É indubbio però che l'Italia non ti aiuta a rimanere, qualora tu lo voglia. Se sei bravo, se sei studioso, se ottieni risultati in campo scientifico, se ci metti dedizione e passione, se sei apprezzato, se meriti, non basta. Non ci sono fondi, è vero, e anche ove ci sono non li danno a te, ma se li spartiscono e sperperano. Sono certo che la D'Alessandro sia stracontenta della sua esperienza all'estero, non è questo il punto; il punto è che sarebbe bello che lei, e come lei molti altri, avesse la possibilità di scegliere di poter tornare a casa.
[Le foto di Matteo Fini sono di Luca Noto]
Community