La cessione del diritto d'autore è un tipo di contratto in cui il lavoratore «negozia la propria opera dell’ingegno consentendone lo sfruttamento in cambio di un corrispettivo». A spiegarlo ad Articolo 36 è Pasquale Staropoli, avvocato della Fondazione Consulenti del Lavoro. Un modello diverso dalla prestazione occasionale, con cui potrebbe essere confuso, perché questa è «resa in completa autonomia, senza subordinazione, inserimento o coordinamento, e la sua esecuzione si connota per la istantaneità ed episodicità, non essendo programmata». Simile a questa però sul fronte della non obbligatorietà di sottoscrizione di alcun contratto: «L’incarico di svolgere una prestazione su cessione di diritto d’autore può essere affidato anche verbalmente», conferma il legale, pur riconoscendo che «una formalizzazione scritta è preferibile ai fini della certezza dei rispettivi obblighi e con funzione di garanzia nella eventualità di inadempimenti». Anche i vantaggi fiscali non sono da poco: «La base imponibile è del 75%» riferisce Staropoli, percentuale che scende al 60% per gli under 35». Infine, trattandosi di «utilizzazione economica dell’opera dell’ingegno dell’autore, non immediatamente riconducibile alla prestazione lavorativa» il contratto non soggiace neppure alla soglia dei 5mila euro annuali prevista per il lavoro occasionale (per effetto del decreto legislativo 276/2003).
Quella della cessione del diritto d'autore è una tipologia contrattuale in sostanza molto versatile e che riguarda trasversalmente il settore dell'editoria: può interessare traduttori, scrittori, autori televisivi, editor, copywriter, e naturalmente giornalisti. In quest'ultimo segmento, nel 2013 in Italia risultano 1078 quelli inquadrati così. I dati, forniti dall'Inpgi 2 - la cassa di previdenza dei giornalisti privi di contratto stabile – indicano che si tratta di un microscopico 1% rispetto al totale dei giornalisti italiani registrati all'Ordine nel 2011, che sono 110mila tra professionisti e pubblicisti - di cui però solo la metà, circa 58mila, risulta aver versato regolarmente i contributi previdenziali. Dunque è quest'ultimo il numero su cui fare maggiore affidamento - perché significa che tutti gli altri, pur appartenendo ancora all'Ordine, hanno magari optato per qualche altra strada professionale (senza contare poi il sommerso).
Dunque le prestazioni con cessione di diritto d'autore riguardano una piccola fetta del giornalismo italiano. Tale inquadramento, va subito detto, conviene a entrambe le parti: sia per le agevolazioni fiscali che la cessione del diritto d'autore consente, sia per la libertà del rapporto instaurato, che non vincola nessuna delle due parti a obblighi particolari e in special modo non obbliga il giornalista a nulla - né alla presenza fisica in un dato ufficio, né a prestare la propria opera in orari predefiniti, bensì solo alla trasmissione del frutto del proprio lavoro intellettuale. E allora dov'è il problema? In realtà qualche nodo c'è, primo tra tutti quello degli abusi. Per esempio tra quegli editori che si fanno scudo di questa modalità contrattuale per aggirare le tutele di cui gode il giornalista autonomo (seppur già ridotte all'osso).
Una di queste è il riconoscimento del 2% - su un'aliquota contributiva complessiva del 12% - che il freelance è tenuto a versare. L'editore potrebbe approfittare «dell'insussistenza di un vincolo di tipo lavorativo con il giornalista, e corrispondere esclusivamente il compenso pattuito, senza soggiacere agli oneri contributivi e fiscali conseguenti al riconoscimento di una prestazione lavorativa» ragiona Staropoli. Se il rischio è questo, e cioè l'aggiramento delle norme contributive, «allora anch'io mi dico contrario alla cessione del diritto d'autore» tuona ad Articolo 36 Enza Iacopino, rieletto di recente presidente dell'Ordine dei giornalisti. Il pericolo è infatti in quei casi che quel due per cento dovuto venga negato al giornalista, per cui «se l'editore deve darti 102, ti dà 100 e ti fa scalare da lì l'aliquota dovuta». È lì quindi che si deve agire, magari introducendo sanzioni e controlli. E andando sopratutto a stanare i casi in cui dietro contratti di questo tipo, così come per le partite Iva, si nasconde lavoro dipendente con tutti i crismi, con orari impiegatizi e la richiesta di un impegno quotidiano.
Però, al netto di queste storture, se il giornalista freelance è adeguatamente pagato, gode di agevolazioni sul piano fiscale e si vede riconosciuti dall'editore committente i contributi previdenziali, perché preoccuparsi della modalità contrattuale con cui lavora? Sorprende che la guerra all'utilizzo della cessione del diritto di autore in campo giornalistico la facciano sopratutto alcune correnti sindacali. Come l'Associazione stampa romana, che storcendo il naso giustifica la propria posizione sulla base dell'evenienza che gli editori possano utilizzare il bene ceduto a proprio piacimento: «Il rapporto di lavoro vero e proprio qui non si verifica, come invece accade nei cocopro, nelle collaborazioni coordinate, in quelle occasionali e nelle partite Iva» sostiene ad Articolo 36 Paolo Buzzonetti, fiscalista e commercialista dell'Asr, puntando il dito contro la scarsità di tutele offerte dalla cessione del diritto d'autore - che è innegabile, ma che è anche una condizione implicita nel lavoro del freelance. A rincarare la dose la giornalista Moira Di Mario, esponente del sindacato, per cui chi cede all'editore i diritti del suo articolo «gli trasmette di fatto la sua proprietà», rischiando in questo modo che l'editore lo riutilizzi magari più volte pagando però il giornalista per un'unica prestazione.
Un rischio reale? E sopratutto, un rischio legato solo a questo tipo di contratto? Così non sembra a Iacopino, che anzi denuncia che quella del 'riciclo' degli articoli è in realtà una prassi adottata da diverse testate nazionali. In pratica il giornalista scrive per un giornale, ma il contenuto dei suoi articoli viene poi riprodotto anche da altre parti. E in questi casi «non gli va in tasca un compenso moltiplicato per ogni singolo uso dell'articolo», bensì solo una maggiorazione a forfait. Funziona così per esempio al Mattino, assicura il presidente, che ripubblica integralmente la parte nazionale edita dal quotidiano romano Il Messaggero. Non sarebbe dunque una prerogativa della cessione del diritto d'autore quella di sottrarre il dovuto riconoscimento economico al giornalista in caso di utilizzi plurimi del contenuto dei suoi pezzi.
Tirando le somme insomma, questioni abnormi che giustifichino la diffidenza verso questa tipologia di collaborazione non ce ne sono: il compenso viene corrisposto su una base imponibile più vantaggiosa per il lavoratore e il datore di lavoro, non esistono tetti massimi di reddito che espongano a sanzioni in caso di sforamento e, se si crede conveniente e si vogliono maggiori garanzie, può sempre essere sottoscritto un contratto che certifichi il rapporto tra le parti.
Eppure tempo fa, a un seminario sull'equo compenso presso la sede dell'Associazione stampa romana, si era addirittura paventata l'estromissione della cessione del diritto d'autore dalla rosa dei beneficiari della legge sul tariffario minimo per i giornalisti autonomi, spesso vessati con trattamenti economici al di sotto della soglia di dignità (fino alle soglie ridicole di 3-5 euro ad articolo). Ma Giovanni Rossi, presidente Fnsi, assicura che l'idea di stralciare la cessione del diritto d'autore dall'equo compenso è del tutto campata in aria: «È una tesi che al momento non trova applicazione: si tratta di lavoro autonomo giornalistico e come tale sottoposto al prelievo Inpgi2. Finché non cambierà questo è chiaro che vi rientra». Ribandendo: «La legge sull'equo compenso [per cui mancano ancora riferimenti sull'entità dei minimi, ndr] tutela il lavoro autonomo in sé a prescindere dalle modalità contrattuali. E anzi dovrà tenere conto anche delle spese che sostiene chi si autoproduce nel calcolo del tariffario minimo». E la tesi di Rossi viene pienamente confermata anche dal presidente Iacopino: «Basta leggere la legge per capirlo. Altro discorso è che tentino di tutto per interpretarla come conviene».
Ilaria Mariotti
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