Un unico immaginario filo, come quello di un telefono, parte dai call center per arrivare al Parlamento. Un unico filo che unisce sindacati, associazioni di categoria e i circa 80mila addetti del settore, di cui 30-40mila assunti a tempo indeterminato e il resto collaboratori a progetto. Un «popolo» fatto per buona parte da soggetti con titolo di studio elevato (diploma o laurea); numerosi i giovani alla prima occupazione.
Qualche settimana fa Umberto Costamagna, presidente di Assocontact, associazione nazionale dei contact center, ha preso parte a un’audizione in Commissione Lavoro alla Camera nell’ambito di un’indagine aperta dalla stessa Commissione per analizzare le problematiche del settore. Ieri è stata la volta dei sindacati Slc, Fistel e Uilcom. Le audizioni non arrivano a caso, ma rappresentano solo uno dei punti nodali di una vicenda che va avanti ormai da tempo. Solo per ricordare una delle tappe più recenti, il 4 giugno i lavoratori dei call center sono scesi in piazza a Roma in quello che è stato ribattezzato «No delocalizzazione day»: una protesta contro la tendenza a trasferire intere unità lavorative fuori dai confini nazionali.
La crisi generalizzata del settore ha portato all’esigenza di tagliare i costi, intervenendo soprattutto su quello che rappresenta oggi la fonte di spesa più pesante, ossia il personale, che incide per l’80% sulla struttura complessiva dei costi (fonte: ufficio studi Assocontact 2014). Questo significa che spostando il call center all’estero, in particolare in paesi dove il costo del personale è più basso del nostro, l’azienda risparmia notevolmente. Solo un esempio: se lo stipendio medio mensile di un lavoratore di call center in Italia è di 1500 euro lordi, in un paese come l’Albania un dipendente costa circa un terzo. Esiste però una «piccola» controindicazione: a oggi parte del personale impiegato in Italia va o rischia di andare a casa.
A favorire la delocalizzazione una serie di fattori, tra cui, oltre al minor costo del personale, vantaggi fiscali, come l’assenza di imposte presenti in Italia, su tutte l’Irap, che influisce notevolmente sul costo del lavoro. Costamagna ha fatto il punto della situazione con Articolo 36 inquadrando le principali criticità: «il quadro attuale è fortemente legato a una serie di fattori, tra cui l’incidenza dell’Irap, tassa non detraibile e indipendente dal risultato economico, sul costo del personale. Un altro aspetto da non sottovalutare è quello delle gare al ribasso, per cui si tenta di accaparrarsi commesse al minor costo possibile. Con il risultato che si sceglie di spostare i call center dove la spesa per l’aziende è minore».
Ma quali sono le cifre della delocalizzazione e quanti lavoratori rischiano di essere coinvolti in questo processo? Oggi le attività delocalizzate rappresentano un volume inferiore al 10% del mercato in Italia e investono soprattutto il settore privato. Una percentuale però in aumento secondo Costamagna. I paesi extra UE rappresentano la metà dei volumi delocalizzati. In aumento i casi di outsourcer che delocalizzano dopo aver beneficiato di ammortizzatori sociali o incentivi in Italia. «Tra le prime 10 aziende del nostro settore, otto delocalizzano o hanno sedi all’estero. Numerose società hanno aperto call center al sud beneficiando di finanziamenti. Una volta in crisi hanno mandato i proprio dipendenti in cassa integrazione e, invece di chiudere, si sono spostate fuori dall’Italia aprendo nuove strutture», spiega Costamagna. Secondo i dati 2014 il mercato fattura complessivamente più di un miliardo e 300 milioni di euro. La maggior parte delle aziende è concentrata al sud (47%), rispetto al 39% del nord e al 14% del centro Italia.
Guardando al tema della retribuzione, se i dati ufficiali Assocontact parlano di una busta paga lorda mensile di 1500 euro, i sindacati hanno denunciato in più di un'occasione paghe ben più basse, dai 2,50 ai 3 euro lordi, che portano a stipendi da fame: 500 euro mensili a fronte di un impegno di 40 ore settimanali. Lo scorso anno Assocontact e sindacati hanno siglato un accordo per portare a 4,80 euro lordi mensili la retribuzione minima obbligatoria per i lavoratori a progetto, uniformandola a quanto previsto per i dipendenti dal contratto collettivo delle tlc.
Ma poi bisognerebbe capire se l'accordo viene rispettato da tutti i player del mercato, avendo anche cura di distinguere tra call center inbound, dove gli operatori gestiscono chiamate in entrata, e outbound, dove è l'operatore a contattare clienti o potenziali clienti a scopi promozionali. Spesso entrambe le attività sono svolte da una stessa società, ma sono i call center inbound a prevalere, con una percentuale del 65% sul totale. Dal punto di vista dello stress correlato a questo tipo di lavoro, esso caratterizza entrambi i "rami di attività": se infatti nel caso degli outbound la telefonata dell'operatore viene vissuta come un disturbo dalla quasi totalità dei riceventi, nel caso degli inbound lo stress deriva dalla attitudine di chi chiama, spesso con poca pazienza, lamentando un disservizio.
Accanto al tema delle condizioni di lavoro, poi, uno dei grandi problemi legati alla delocalizzazione riguarda la tutela dei dati personali, in assenza all’estero di una regolamentazione come quella sancita in Italia dal decreto 196/2003. Il rischio è infatti che la riservatezza di queste informazioni non sia garantita nei paesi dove di fatto l’azienda va a operare. Per tentare di ovviare a questo problema l’articolo 24 bis del decreto 83/2012 ha previsto che l’azienda che effettui delocalizzazione deve «darne comunicazione all’Autorità garante per la protezione dei dati personali, indicando quali misure vengono adottate per il rispetto della legislazione nazionale, in particolare del codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto legislativo 196/2003. Analoga informativa deve essere fornita alle aziende che già operano in paesi esteri».
Il problema, aggiunge Costamagna,è che «esistono delle regole relative al trattamento dei dati o alla visibilità del numero dell’operatore, ma spesso non vengono rispettate». Cosa si può fare allora e soprattutto quale è stata la risposta da parte delle istituzioni? Tra le proposte di Assocontact «una differente regolazione delle gare che non prescinda dai minimi contrattuali, un intervento forte sulla fiscalità e una politica industriale che regolarizzi meglio la gestione dei passaggi di commessa da una società all’altra».
Nel frattempo il ministero dello Sviluppo economico ha teso la mano alle associazioni di categoria, prevedendo un incontro, che al momento non ha ancora una data certa; il prossimo 18 luglio invece il sindacato confederale organizzerà una mobilitazione proprio davanti il ministero. Ad attendere la risposta sono soprattutto i tanti addetti del settore. Lavoratori che aspettano interventi chiari e incisivi per sperare in un futuro dai contorni più definiti.
Community