I detrattori dicono che ormai sul web si trova di tutto, anche la laurea. I sostenitori le etichettano come un utile antidoto contro la mancanza di tempo. Da quando esistono, esattamente dieci anni, le università telematiche sono state più volte passate sotto analisi e, poco tempo fa, il neo ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza ha deciso di vederci chiaro. Da viale Trastevere è stata, infatti, annunciata l’istituzione di una commissione per valutare la «qualità dell’offerta formativa» degli atenei online. Compito della commissione (composta da Stefano Liebman, professore ordinario di Diritto del Lavoro presso l’Università Bocconi di Milano; Marco Mancini, rettore dell’Università della Tuscia di Viterbo e Presidente della Conferenza dei rettori delle università italiane (CRUI); Marcella Gargano, vice-capo di gabinetto MIUR) sarà redigere una relazione sul tema nel giro di due mesi. Circa un mese fa, poi, i senatori PD Walter Tocci e Leana Pignedoli [nella foto in basso] hanno presentato un’interrogazione parlamentare - ancora in attesa di risposta - proprio sulla questione università telematiche, chiedendo che i requisiti minimi per l’attivazione dei corsi di laurea nelle università italiane, fissati a gennaio da un decreto del MIUR, vengano applicati anche alle università online, attualmente prive di una regolamentazione in tal senso.
Ma cosa sono e quando nascono le università telematiche? E soprattutto, possono essere messe sullo stesso livello delle università «tradizionali»? L’origine degli atenei online, ossia completamente virtuali, risale alla legge 289/2002 (Finanziaria 2003). La norma prevede che vengano stabiliti, attraverso un successivo decreto interministeriale, «i criteri e le procedure di accreditamento dei corsi universitari a distanza e delle istituzioni abilitate a rilasciare titoli accademici, senza oneri a carico del bilancio dello Stato», tracciando alcuni requisiti come la presenza di un’«architettura di sistema flessibile e capace di utilizzare in modo mirato le diverse tecnologie per la gestione dell’interattività». Il provvedimento attuativo è il decreto Miur 17 aprile 2003, il quale stabilisce, tra le varie disposizioni, che i corsi di studio delle università telematiche debbano essere organizzati secondo gli ordinamenti didattici vigenti e che i titoli di studio rilasciati abbiano valore legale. Lezioni e libretto sono «virtuali», mentre gli esami si sostengono nelle sedi delle università online, tenendo conto del calendario pubblicato da ciascun ateneo. Il decreto, firmato dall’allora ministro dell’Istruzione Letizia Moratti, di fatto equipara la laurea «telematica» a quella degli atenei classici.
Attualmente esistono 11 università telematiche: ben sei di esse hanno sede a Roma. Si tratta della Guglielmo Marconi, dell’Unitelma Sapienza, dell’Università telematica internazionale Uninettuno, dell’Università San Raffaele, dell’Unicusano e dell’Universitas Mercatorum. Le altre cinque sono l’università E-Campus di Novedrate (Como), la Giustino Fortunato di Benevento, la Italian University Line di Firenze, la UniPegaso di Napoli, la Leonardo da Vinci di Torrevecchia Teatina, provincia di Chieti.
Secondo una delle ultime rilevazioni ufficiali del MIUR, nell’anno accademico 2009/2010 i corsi di studio complessivi erano 74: la maggior parte di essi rientra negli ambiti giuridici ed economici. Sui siti degli atenei sono presenti l’offerta formativa complessiva e il programma dettagliato di ciascun corso. Le lezioni si svolgono online attraverso una piattaforma di e-learning e sono tenute dai docenti dell’ateneo. La piattaforma consente anche di effettuare prove di autoverifica su una determinata lezione o esame. Di solito, oltre ai contenuti delle lezioni, per la preparazione agli esami è necessario acquistare libri di testo selezionati dal docente e indicati nell’ordine degli studi. Gli studenti possono incontrare di persona gli insegnanti nella sede dell’università, sulla base degli orari di ricevimento indicati sul sito. Gran parte degli iscritti è over 30 (più o meno i due terzi): si tratta, cioè, di persone per la maggior parte già attive sul mercato del lavoro, che puntano a ottenere il titolo a distanza, pur avendo poco tempo a disposizione.
La possibilità di raggiungere la laurea senza doversi recare all’università, potendo, così conciliare studio e lavoro, l’evoluzione tecnologica e la comodità di seguire i corsi da casa, sono state tra le ragioni del successo delle università online, passate da quattro nell’anno accademico 2005/2006 a 11 nel 2008/2009, da circa 5200 a più di 17mila iscritti secondo quanto risulta dal Decimo Rapporto CNSVU sullo stato del sistema universitario.
Negli ultimi anni, però, si sta registrando un’inversione di tendenza: secondo i dati dell’Anagrafe nazionale studenti del Miur relativi al numero di immatricolazioni, se nell’anno accademico 2010/2011 i nuovi iscritti sono stati oltre 7500 (su un totale di 289.714 immatricolati complessivi), l’anno successivo si è passati a poco più di 4400 (su un totale di 280.114). La quota di immatricolati degli atenei telematici incide in minima parte sul numero complessivo degli atenei nazionali. La sproporzione tra il numero esiguo di immatricolati rispetto a ben undici università presenti appare abbastanza chiara. Tanto più se si pensa che alcuni di questi atenei presentano un numero di iscritti piuttosto basso: ad esempio, nell’anno accademico 2011/2012 la IUL di Firenze ha registrato appena 58 iscritti, rispetto agli oltre 13mila della Marconi.
«Il proliferare di università telematiche senza che siano previsti adeguati controlli qualitativi è indubbiamente un problema. Credo che in Italia oggi sia necessario ripristinare a mantenere alti standard di formazione, vero motore di sviluppo del nostro Paese e della nostra società» dice la senatrice Pignedoli, co-firmataria dell’interrogazione parlamentare sulle università telematiche, alla Repubblica degli Stagisti: «Quella che avviene oggi, a seguito della presentazione di quel decreto legge che di fatto taglia fuori le università telematiche, è un’anomalia non spiegabile che non garantisce alti standard di formazione».
In tutti gli atenei comunque il trend, positivo fino a qualche anno fa, è accompagnato da tre anni dal segno meno. La crisi generalizzata ha sicuramente qualche responsabilità. Basta dare un’occhiata ai costi medi delle undici università telematiche, oscillanti tra i 2mila e i 4mila euro l’anno e variabili, all’interno dello stesso ateneo, a seconda delle ore di lezione effettuate, della presenza di eventuali tutor e così via. Se è vero che la maggior parte degli iscritti sono lavoratori, è molto probabile che negli ultimi anni la scelta di investire non pochi soldi in formazione venga ponderata per bene. Il calo di immatricolati va di pari passo con quello registrato in tutte le altre università, che rispecchia anche la diffidenza nei confronti dell’effettivo valore del titolo accademico e della capacità di garantire concreti sbocchi occupazionali.
Un discorso che si collega alla diffusa opinione che la laurea «telematica» sia una laurea di «serie B», una scorciatoia rispetto al titolo ottenuto nelle aule universitarie, permettendo più facilmente il superamento degli esami necessari alla laurea.
Analizzando gli ultimi dati disponibili sull’Anagrafe nazionale degli studenti del Miur, uno degli aspetti che balza maggiormente agli occhi è la forte percentuale negli atenei telematici dei cosiddetti «laureati con abbreviazione», ossia coloro che hanno ottenuto il titolo in un tempo inferiore alla durata legale del corso: si tratta, ad esempio, del 57,4% del totale dei laureati nell’anno accademico 2008/2009 per l’Unitelma Sapienza e addirittura il 95,1% per l’E-Campus. Sono tutti velocisti i laureati «telematici» o forse prendere un titolo a distanza è più facile rispetto a sudarselo nelle aule? Le votazioni finali riportate nello stesso anno accademico evidenziano come la maggior parte degli iscritti concluda, però, il proprio percorso accademico con un voto compreso tra 91 e 100, mentre i laureati con voto pari o superiore al 106 rappresentano una percentuale minoritaria. Votazioni certamente non basse, ma non d’eccellenza.
L’ipotesi legata a un livello qualitativo più basso è avvalorata anche dalla sproporzione tra il numero di personale docente e la quantità dei corsi di studio offerti. In tutte le università telematiche è stato evidenziato come il numero di professori di ruolo sia nettamente inferiore rispetto all’organico necessario. Inoltre, accanto ai docenti di ruolo (selezionati attraverso procedure concorsuali nazionali), la legge prevede anche la possibilità di reclutare, attraverso selezioni interne alle singole università, figure a tempo determinato - professori straordinari o ricercatori a tempo determinato. A causa della frequente scarsità di risorse finanziarie, quindi, gli atenei hanno preferito tagliare sull’organico e in generale sui servizi offerti, minando inevitabilmente la qualità complessiva, come già riscontrato del Decimo Rapporto CNSVU. Lo stesso studio rivela come, secondo i dati di bilancio 2008, molte di esse abbiano chiuso in passivo o mantenuto una situazione di equilibrio a livello finanziario. L’università Marconi è quella con il giro d’affari maggiore, oltre 22 milioni di euro (2008).
Una delle priorità nella valutazione della Commissione voluta dal Ministero dovrebbe essere, quindi, quella di suggerire una razionalizzazione dell’offerta relativa alle università telematiche. Un esempio potrebbe essere l’accorpamento di alcuni atenei online esistenti, per eliminare università con lo stesso numero di iscritti di una classe scolastica. Soluzione, questa, che però rischia di trovare un ostacolo considerevole: alcuni politici possiedono quote più o meno consistenti proprio all'interno degli atenei online. Una seconda strada l’ottimizzazione dei percorsi di laurea, per fare in modo che ciascun ateneo presenti un’offerta formativa differente e peculiare rispetto a quella degli altri, così da recuperare iscritti e ridare appeal a un tipo di università che per ora sembra essere passato di moda.
Chiara Del Priore
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