Oggi in tutta Italia è in corso una giornata di mobilitazione nazionale dal titolo “Per una nuova primavera delle università” (su twitter: #primaverauniversita), promossa dalla Crui – la conferenza dei rettori delle università italiane – con lo scopo di «riaffermare il ruolo strategico della ricerca e dell'alta formazione per il futuro dell'Italia». Eppure quasi nessuno sa che c’è una spada di Damocle che pende sulle teste dei ricercatori e assegnisti di ricerca in Italia e che, complice il silenzio della politica, rischia di bloccare i fondi europei per tutta la vasta schiera di figure che affollano il “pre ruolo” in ambito universitario. Perché a fine ottobre dello scorso anno la Commissione europea, nell’Annotated model grant agreement, ha stabilito che gli assegni di ricerca, i contratti di collaborazione continuativa e i contratti a progetto non sono previsti come costi ammissibili per le rendicontazioni dei progetti Horizon 2020.
La Repubblica degli Stagisti ha approfondito la questione con Antonio Bonatesta, segretario nazionale dell’associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani. Partendo innanzitutto dai numeri: i finanziamenti concessi all’Italia nel corso del 2014 con Horizon 2020, il programma che l’Unione europea destina all’innovazione e alla ricerca per il settennato 2013-20, sono stati pari a circa 353 milioni di euro, per un totale di quasi 600 progetti messi a punto grazie anche a figure come quella dell’assegnista di ricerca.
Fino all’ottobre del 2015 i progetti italiani sono stati presentati «con dentro i contratti di collaborazione e con gli assegni di ricerca e sono stati anche pagati. Poi nell’ottobre 2015» spiega Bonatesta «l’ufficio legale della direzione ricerca della Commissione europea ha sollevato dei problemi di compatibilità». E dall’autunno dello scorso anno praticamente si è in trattativa per trovare una soluzione. «La Commissione europea contesta la validità di questi contratti all’interno dei progetti Horizon perché sarebbero di natura parasubordinata, quindi non hanno un vincolo di subordinazione, ma soprattutto non possono essere rendicontati con un costo orario» aggiunge il segretario Adi.
L’assegno di ricerca, infatti, è rendicontato sulla base del raggiungimento del risultato, non sul numero di ore impiegate per raggiungerlo. «Mentre l’Unione europea per la rendicontazione di questi fondi chiede proprio la natura subordinata di questi contratti. Questo è il vero problema, che poi ha due facce. La prima è che le tante figure giuridiche che popolano il pre-ruolo accademico e che ancora non sono strutturate nelle università avranno delle difficoltà nell’intercettare nei prossimi anni i fondi messi a disposizione dall’Unione europea, a causa di questo problema di compatibilità. La seconda faccia è la questione “minacciata” della retroattività della decisione della Commissione europea. Potrebbe esserci il rischio» paventa Bonatesta «che il provvedimento venga applicato anche per il passato e che quindi l’Italia abbia non poche difficoltà nel pagare quelli che sono stati i contratti erogati attraverso gli assegni di ricerca». Un’opzione su cui però il condizionale è d’obbligo, perché al momento c’è un negoziato in corso tra Europa e Italia per cercare di trovare una soluzione almeno su questo punto.
L’Adi però non vede nella decisione dell’Unione europea un’azione volta a tagliare le gambe ai ricercatori, quanto piuttosto «un input ben preciso dato all’Italia per rivendicare la figura del pre ruolo che sia noi, sia altre organizzazioni e sindacati, chiediamo ormai da tempo. E prima di tutto riformare la figura dell’assegnista di ricerca che, avendo un contratto parasubordinato e non subordinato, manca di varie tutele: in primo luogo l’indennità di disoccupazione».
Un problema che secondo il segretario nazionale dell’associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani non è scollegato. Perché spesso tra un contratto e l’altro passano mesi in cui il ricercatore non percepisce un reddito. «E il fatto che per gli assegnisti di ricerca sia previsto solo un contratto parasubordinato non ci mette nelle condizioni di ricevere l’indennità di disoccupazione. Motivo per cui noi stiamo portando avanti questa battaglia. Non solo. Ora scopriamo che oltre a queste lacune non abbiamo nemmeno la compatibilità con i fondi Horizon 2020! A questo punto non c’è altra soluzione per l’Italia che intervenire sul sistema normativo e trasformare l’assegno di ricerca in un contratto post doc di natura subordinata. Quindi più consistente e tutelato dal punto di vista delle garanzie sociali per l’indennità di disoccupazione e dal punto di vista previdenziale, ma anche in grado di interfacciarsi con i fondi europei».
C’è però un’altra questione non di poco conto sul tavolo: se l’Unione europea dice nero su bianco che i contratti parasubordinati attivati oggi ad assegnisti di ricerca e ricercatori non vanno bene, dall’altra il Convegno dei direttori generali delle università italiane (Codau) e l’Agenzia per la promozione della ricerca europea (Apre) hanno risposto all’Europa che per la legge italiana queste tipologie di contratti sono assimilabili a quelli subordinati. «Mi fa piacere che i direttori generali delle università dicano, o siano convinti, o cerchino di convincere la Commissione europea che gli assegni di ricerca siano dei contratti di lavoro subordinato. Ci fa piacere che ci sia questa posizione. Però allora c’è una dissonanza di voci con cui l’Italia si confronta con l’Europa. Se fossi io il commissario europeo alla ricerca» continua Bonatesta per far capire la gravità della situazione «mi metterei le mani nei capelli a sentire il Codau dire una cosa e il ministro del lavoro l’esatto opposto».
Bonatesta si riferisce al caso dell’interrogazione parlamentare in cui si chiedeva al ministro Poletti perché la DIS-COLL (la disoccupazione per collaboratori) non potesse essere estesa anche ai dottorandi o assegnisti di ricerca. Proprio in quel caso il ministro «Ha detto chiaramente che l’assegno di ricerca era un contratto di lavoro parasubordinato», spiega il segretario Adi che continua. «È l’Italia che è confusa. Il ministro dice una cosa mentre l’Apre e il Codau un’altra. C’è grande confusione. Perciò noi diciamo che è assolutamente necessario intervenire dal punto di vista legislativo e rivedere tutte queste figure assecondando l’input che viene dall’Europa».
Perché le soluzioni, secondo l’associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani, sono due: o la commissione europea rinuncia a questo rilievo e si trova un escamotage per ricomprendere gli assegni di ricerca così come sono, o decide di mantenere fermo il suo rilievo e governo e parlamento italiano devono approvare una riforma che porti l’assegno di ricerca a livello di un contratto post doc di natura subordinata. «Uno dei due deve cedere. Noi auspichiamo che l’input della Commissione serva per un intervento legislativo. Anche perché esiste già un disegno di legge, il 1873 cosiddetto “ddl Pagliari”, in discussione al Senato che prevede una serie di modifiche al sistema del pre-ruolo e che deve ancora essere sgrossato visto che è carico di emendamenti anche di senso contrario», spiega Bonatesta.
Il ddl, infatti, prevede l’unificazione delle due figure di ricercatore a tempo determinato con un’unica figura pre ruolo e «auspichiamo che al suo interno si possa operare per trasformare l’assegno di ricerca in contratto post doc di natura subordinata. Questo è il nostro auspicio, se il governo non agisce o la commissione europea cede allora ci saranno grosse ripercussioni perché nei progetti italiani non si potranno pagare assegni di ricerca ma solo consulenze esterne. Ed è poi necessario rivedere la figura del ricercatore, perché oggi chi fa ricerca vive un periodo di precariato che dura circa 12 anni, al netto dei periodi in cui si è senza contratto visto che non c’è nessun obbligo a rifarli appena scadono».
Una via crucis di precariato che non fa altro che innalzare l’età dei ricercatori in Italia: se nel 2006 l’età media di ingresso in ruolo era di 36 anni oggi è di oltre 42. «Abbiamo tantissimi assegnisti di ricerca over 40 e poi dall’altra parte un ministro che dice che non sono lavoratori ma studenti. Perciò chiediamo che si intervenga su questa struttura lunghissima e folle, eliminando le due figure e inserendo un contratto post doc di natura subordinata e non più parasubordinata».
E sa da una parte sembra un fatto positivo che la politica voglia occuparsi di questo problema con una legge, dall’altra il fatto che siano ormai molti mesi che il provvedimento è depositato in Senato non spinge ad essere ottimisti. Per questo nelle prossime settimane cominceranno varie attività per cercare di far reagire il governo. «Il contesto universitario è in fibrillazione. C’è stata la protesta e il boicottaggio della valutazione della qualità della ricerca (Vqr) dove i docenti che aderivano protestavano non solo per gli scatti stipendiali ma per un’idea di università differente. C’è stata la campagna per l’estensione della DIS COLL, la campagna Perché noi no, c’è la petizione del professor Parisi, Salviamo la ricerca italiana, che ha raggiunto quasi 100mila firme. Ecco, noi contiamo di inserire tutte le istanze dei giovani ricercatori all’interno di questo clima di fermento che ormai c’è nelle università italiane».
Purtroppo, però, non ci sono dei termini di legge entro i quali il governo deve intervenire. I tempi massimi «sono quelli del rispetto che dovrebbe avere per i giovani ricercatori che si trovano a svolgere il loro lavoro in una condizione deprimente e di sottovalutazione. Finendo per riflettere l’incertezza lavorativa anche sul piano esistenziale. Perciò chiediamo di fare presto, perché la situazione è esplosiva». A dirlo sono i numeri: la platea su cui interviene il problema del percorso pre ruolo e in particolare il caso Horizon 2020 conta circa 65mila ricercatori. Che sono pronti a manifestare e far sentire la loro voce, per non finire sui giornali solo quando ottengono grandi risultati scientifici una volta fuggiti dall’Italia.
Marianna Lepore
Community