Giada Scotto
Scritto il 20 Set 2019 in Interviste
#Ashoka #Ashoka fellow #imprenditori sociali #Luciana delle Donne #Made in carcere
Inizia oggi il ritiro annuale degli Ashoka fellow italiani. Quest'anno si svolge a Lecce e la padrona di casa è Luciana Delle Donne, una bomba di energia ed entusiasmo, come si evince anche dall’agenda: per accogliere in terra pugliese i suoi colleghi Fellow è pronto un ricco ventaglio di impegni tra tour della città, incontri con gli imprenditori locali e visita in carcere. Immancabile, quest'ultima, dato che dare una seconda chance a chi è in prigione è proprio la mission di Delle Donne, manager di estrazione bancaria con grande esperienza nell’innovazione tecnologica, che una dozzina d'anni fa ha scelto di lasciare il mondo della finanza ed entrare nelle carceri per aiutare le detenute in un percorso di cambiamento.
Nel 2007, a quarantacinque anni, Delle Donne decide dunque di dare una svolta alla propria vita e crea Officina Creativa – una cooperativa sociale senza scopo di lucro tramite cui dà vita al marchio Made in Carcere, per il quale ha ottenuto il riconoscimento di Ashoka Fellow. Made in Carcere dà la possibilità alle detenute delle carceri di Lecce e Trani di intraprendere un percorso di formazione in campo tessile, da mettere a frutto nella produzione di oggettistica ricavata da materiali di scarto. Con la vendita di questi accessori le detenute si costruiscono un bagaglio di competenze professionali e un piccolo stipendio – ma, soprattutto, ricostruiscono la propria vita. A quest’iniziativa si affianca da qualche anno anche un progetto sull’educazione al cibo condotto in alcune carceri minorili, per dare anche ai più giovani l’opportunità di uscire da una situazione di disagio e rimettersi alla guida della propria vita.
Come è scattata la scintilla che l’ha portata a lasciare un mondo fatto di sicurezze e a buttarsi nell'idea di Made in Carcere?
Ho lasciato il mondo della finanza perché avevo voglia di esplorare nuovi mondi, di fare una nuova esperienza. Mi sentivo in quella che si definisce una “gabbia di vetro”. Non potevo lamentarmi, perché ero nella stanza dei bottoni, ma sentivo di voler esplorare nuovi territori, per mettere a disposizione le competenze che avevo acquisito negli anni e restituire, in qualche modo, la fortuna che avevo avuto.
Quali sono stati i primi passi?
Diciamo che il passaggio non è stato subito facile. Tanto per cominciare, ho iniziato con un fallimento. Avevo infatti brevettato un collo di camicia su cui avevo iniziato a lavorare con quindici detenute – che sono poiuscite tutte con l’indulto! Così mi sono ritrovata a dover ricominciare da capo. Il non avercela fatta è stata però un’illuminazione: mi ha fatto capire meglio dove stavo operando, cosa era possibile fare e cose invece no. In carcere infatti c’è un continuo turn over delle presenze e non si può pensare a una formazione che richieda troppo tempo. Serviva qualcosa che si imparasse velocemente. Così mi sono diretta sull’oggettistica etica, ricavata a partire da materiali e tessuti di scarto, per i quali è sufficiente una formazione di tre mesi. Produciamo borse, braccialetti, shopper bags e tanti altri accessori.Con questo progetto abbiamo sdoganato la parola “carcere” in Italia, abbiamo riportato al centro una realtà di cui, dieci anni fa, nessuno si occupava e sapeva nulla. Se prima si voleva solo lasciar tutto com’era e “buttar via la chiave”, poi c’è stato il necessario intervento educativo. L’ottanta per cento delle persone che in carcere ricevono un’educazione, non torna a delinquere: questo è fondamentale anche perché ogni detenuto costa allo Stato, e quindi a tutti i cittadini, circa 60mila euro all’anno. Aiutare Made in Carcere significa quindi aiutare tutti, aiutare a non delinquere e aiutare i detenuti a ricostruirsi una dignità, una propria “cassetta degli attrezzi” con cui presentarsi poi sul mercato del lavoro.
Costruite inclusione e sostenibilità.
Esatto, impatto ambientale e inclusione sociale. I nostri progetti volgono infatti sul tessile, a partire da materiali di scarto, e sull’educazione al cibo. L’idea è quella di creare prodotti di qualità, che facciano bene al corpo e all’anima sia di chi le produce che di chi li acquista.
Come è organizzato il lavoro tra i detenuti?
Il progetto di sartoria coinvolge solamente donne, che hanno accolto con assoluta convinzione questa iniziativa. La maggior parte sono mamme, che avrebbero abbracciato qualsiasi progetto desse loro la possibilità di riacquisire dignità e credibilità, soprattutto agli occhi dei loro figli. Grazie a Made in Carcere hanno la possibilità di pagare ai loro figli i libri, la scuola. Prima di entrare in carcere abbiamo studiato molto, ci siamo informati, e abbiamo capito che dovevamo lasciarci il passato di queste donne alle spalle e creare una sorta di “tempo zero” nella loro vita dal quale ripartire, e così è stato. Con i ragazzi è stato più difficile: sono più diffidenti e cercano, più che altro, di mettersi in evidenza per manifestare il loro disagio. È a loro che è rivolto il progetto sull’educazione al cibo, tramite cui creano biscotti vegani con materie prime di altissima qualità. Questo ci ha permesso di creare anche con loro, pian piano, un rapporto di fiducia: sono più “complicati” delle donne, ma con il tempo e la cura si riesce a conquistarli.
Ad oggi, quanti detenuti lavorano con Made in Carcere?
Al momento abbiamo oltre trenta detenuti ma, chiaramente, ne sono passati centinaia: bisogna considerare che la detenzione media è di tre anni e c’è quindi un continuo “ricambio”. Anche dal punto di vista emotivo, siamo messi a dura prova. Con i detenuti si crea un rapporto affettivo ma, come accade a scuola, appena hanno imparato, se ne vanno. Fa piacere che imparino a camminare con le proprie gambe, ma dispiace vederli andar via.
E i dipendenti?
Il nostro staff è invece composto da circa dieci persone che si dividono tra i laboratori, ognuno dei quali richiede un responsabile di produzione, i corsi di formazione e il reparto marketing: insomma, un modello classico di impresa che però, invece di generare profitto, genera benessere.
Dal punto di vista economico quali sono le vostre risorse?
Il nostro approccio è, principalmente, quello dell’autofinanziamento. Attraverso la vendita dei manufatti ricaviamo infatti i fondi per pagare lo stipendio dei detenuti. A questo si affianca però anche la raccolta fondi tramite, ad esempio, il cinque per mille, e Charity Stars, che raccoglie fondi per organizzazioni no-profit. Ogni anno si tiene poi l’Old star game, un evento con le vecchie glorie della pallacanestro, il cui ricavato ci viene donato. Tutta questa raccolta ci permette di alimentare nuovi progetti, di crescere, sperimentare e innovare.
Come si è svolto il percorso per diventare fellow Ashoka?
Il percorso è stato duro ma piacevole. Ho affrontato un’intervista in tre giornate, che ha scavato nel mio passato, sino all’infanzia, facendo riaffiorare tanti ricordi. È stato un po’ come andare in psicanalisi. Volevano avere la conferma che fosse veramente nel mio dna l’avere una visione innovativa, la capacità di inventare e progettare, già nel presente, scenari futuri. È stata una bellissima esperienza, interessante quanto stimolante. L’elezione mi ha dato la conferma di stare percorrendo la strada giusta, mi ha dato quella consapevolezza che aiuta ad andare avanti e dà la forza per alzarsi convinti, anche se stanchi, ogni mattina... perché sai che ciò che fai è importante anche per altre persone, e che loro credono in te.
Quali sono i prossimi step e i prossimi obiettivi che si pone per Made in Carcere?
Il prossimo obiettivo è quello di ampliare due progetti che già adesso stiamo portando avanti. Made in Carceresostiene infatti lo sviluppo di nuove sartorie sociali di periferia, che coinvolgono persone che si trovano ai margini, in situazioni di forte difficoltà. Doniamo loro tessuti, stampiamo etichette con il loro logo, per aiutarli a far crescere la loro identità. Al momento collaboriamo con sartorie sociali nelle periferie di Lecce, Taranto, Bari, ma l’obiettivo è quello di creare una mappa sul territorio, tramite cui aiutare queste piccole realtà diffondendo il nostro know-how. Il secondo progetto consiste invece nell’ampliamento di una multipiattaforma online, la Second Chance Platform, che abbiamo creato per permettere a piccoli artigiani della bellezza etica e sostenibile di dar vita a un loro store online, dove pubblicizzare e vendere i loro prodotti. Si tratta di produttori che, altrimenti, non avrebbero avuto visibilità e che riescono così a proporre le loro idee senza dover creare un dominio, pagare un sito ecc. C’è poi un’ultima cosa: con noi è stata creata in carcere, forse per la prima volta in Italia, quella che io chiamo una “maison sartoriale”, un vero e proprio laboratorio in cui le celle sonostate trasformate in cucine e lo spazio, riempito da divani, tappeti e mobili antichi, è utilizzato per organizzare corsi, permettere alle detenute di mangiare insieme, trascorrere del tempo leggendo, sfogliando riviste e giornali. Se ci siamo riusciti è stato grazie alla direttrice del carcere di Lecce Rita Russo, la quale ci ha affidato un’intera ala del carcere da trasformare in maison.
Oggi inizia a Lecce il ritiro annuale degli Ashoka fellow italiani. Qual è lo spirito con cui viene affrontato questo ritiro?
L’evento parte oggi e si svolge in tre intense giornate. Saranno giornate di confronto e di riflessione, ma anche di relax, perché è in un’atmosfera rilassante che vengono fuori le idee migliori. Oggi visiteremo le periferie di alcune città, dopodiché faremo una cena - picnic a Lequile, il comune che ci ospita, a cui ogni fellow porterà qualcosa che ha preparato. Domani mattina andremo in carcere, per poi concederci un pomeriggio in un centro benessere e una passeggiata serale nel centro storico di Lecce. Domenica, infine, incontreremo vari imprenditori che hanno lo spirito e la voglia di confrontarsi con noi per riflettere e capire insieme come si può reagire, con l’innovazione sociale, alle sfide che ci si pongono davanti. Il mio desiderio è quello di poter trascorrere queste tre giornate di confronto in un ambiente comodo, non solo “didattico”, poiché abbiamo bisogno di essere un po’ “coccolati”: ci doniamo completamente a questi progetti di innovazione sociale e abbiamo bisogno di prenderci anche del tempo per noi stessi, per riflettere e rigenerarci senza stress.
Intervista a cura di Giada Scotto
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