I luoghi archeologici italiani – tra siti, monumenti e musei – sono più di 2.500. Il flusso di visitatori generato ogni anno è di oltre 15 milioni di persone. Su 911 siti tutelati dall’Unesco in tutto il mondo, ben 44 – il 5 per cento – sono italiani. Nessun altro paese ne ha così tanti: lo dice l'Indagine sullo stato di manutenzione dei siti archeologici svolta due anni fa da Cristina Zuccheretti e Valeria Chiarotti per la Corte dei conti.
Eppure in Italia gli archeologi attivi sono solo 5mila. Faticano a trovare lavoro, quando lo trovano di solito si tratta di un inquadramento precario e sottopagato. Sempre più spesso abbandonano la professione per esasperazione o per bisogno di un reddito più sicuro, o per tutte e due le motivazioni.
Sabato pomeriggio un drappello di archeologi ha fatto un flash mob a Castel Sant’Angelo, dove hanno sede il Museo Nazionale di Castel Sant'Angelo e la Soprintendenza speciale per il patrimonio storico artistico ed etnoantropologico e per il Polo museale della città di Roma. Obiettivo: lanciare un messaggio al neo-sottosegretario Ilaria Borletti Buitoni, che nei giorni scorsi ha rilasciato dichiarazioni poco rassicuranti sulle prospettive occupazionali del comparto: «In questo contesto è assolutamente impossibile che lo stato abbia risorse sufficienti per ampliare l’offerta culturale senza ricorrere anche al sostegno dei volontari».
La questione è spinosa. Le persone che prestano gratuitamente il proprio servizio come atto di volontariato sono preziose per tantissime attività, specialmente quelle culturali e di assistenza sociale che possono contare su fondi statali molto scarsi. Ma il problema salta subito all’occhio: confondere professionisti e volontari è pericolosissimo. Infatti durante il flash mob, promosso dalla Confederazione italiana archeologi, i partecipanti tenevano in mano un cartoncino colorato con su scritto il proprio nome e la frase «Volontario a chi?».
«In Italia sono attivi ventotto corsi di laurea specialistica in Archeologia, quindici scuole di specializzazione post lauream e diverse scuole di dottorato» spiega alla Repubblica degli Stagisti Salvo Barrano, presidente dell'Associazione nazionale archeologi: «Fino al 2005 si laureavano più o meno 3mila studenti all'anno. Ora la situazione è sicuramente diversa: secondo i nostri calcoli dovremmo essere scesi a 1500-2mila, ma non esistono indagini recenti». Del resto le prospettive occupazionali sono sconfortanti: «Negli ultimi anni molti archeologi hanno abbandonato la professione», sostiene Barrano, «a causa delle cattive condizioni di lavoro e della crisi economica, che ha avuto forti ripercussioni sul settore dell'edilizia, cui la professione è in parte legata». Il Mibac ha recentemente dato un segno positivo assumendo 30 archeologi - e con questo portando a 350 l'organico interno dei funzionari archeologi - ma il problema è strutturale. Gli archeologi servirebbero certamente all'interno degli uffici tecnici degli enti territoriali, dei musei locali e civici: «Ma tutte queste strutture spesso non sono in grado di assicurare lavoro con continuità» nota Barrano.
Secondo i dati del II° censimento nazionale condotto dall'Ana, infatti, gli archeologi assunti nella pubblica amministrazione sono soltanto il 6%; quelli assunti nel settore privato con contratti di tipo subordinato privato l'8%. Per la maggior parte gli archeologi lavorano con tipologie contrattuali autonome, paraautonome o parasubordinate (74%). Più in dettaglio, oltre un quarto lavora a partita Iva, uno su cinque con contratto a progetto, poco più di uno su sei con contratti di collaborazione occasionale mentre il 9% del campione intervistato è titolare di una società. Rimane un 5% che non lavora.
Dati deprimenti anche per quanto riguarda le retribuzioni. Il 72% degli archeologi italiani guadagna meno di 20mila euro lordi all'anno, e di questi solo il 10% riesce a guadagnare tra i 15mila e 20mila, mentre il resto sta sotto i 15mila. 20mila euro lordi vuol dire grossomodo mille euro netti in tasca al mese. 15mila vuol dire 750 al mese. Il reddito di un archeologo. In Italia. Che ha il 5% del patrimonio mondiale Unesco. 2.500 siti archeologici. La culla della cultura, dell'arte, dell'archeologia. 750 euro al mese. «Esiste però un piccolo segmento dei professionisti, un 6%, che sono quelli più affermati, che riesce a stare sopra i 25mila euro lordi all'anno» aggiunge Barrano. E meno male.
In questa situazione, le dichiarazioni della Borletti Buitoni sono pesate come macigni. Perché il rischio che i volontari vengano utilizzati dalle realtà museali e archeologiche per sostituire normali dipendenti è dietro l'angolo. E bisogna agire con grandissima attenzione perché i volontari non siano percepiti come "ladri di lavoro" non solo per gli archeologi ma anche per gli storici dell'arte, restauratori e tutti i professionisti di questo ramo.
«Il contributo dei volontari per iniziative straordinarie, come l'apertura dei musei e dei siti in occasioni particolari, è un fatto positivo e i volontari vanno ringraziati per la loro generosità: mettono al servizio degli altri tempo e passione» ammette Barrano. A patto però che ai volontari vengano affidate «mansioni comuni, che non presuppongono alte qualificazioni. Quello che temiamo è che le parole del sottosegretario Borletti Buitoni inaugurino la pratica di ricorrere ai volontari in via ordinaria, per sopperire alle carenze di personale. Insomma che i volontari diventino le toppe per nascondere i buchi nella macchina dello Stato». Non certo una prospettiva fantascientifica, nel Paese che ha il 5% del patrimonio Unesco eccetera eccetera ma anche ministri che soavemente dichiarano che «con la cultura non si mangia». Non è il caso della Borletti, certo. Ma ora al ministero la signora della Milano bene, già presidente del Fai, riveste un ruolo chiave, e le sue parole non vengono prese alla leggera dal presidente dell'Ana: «Sarebbe ancor più grave se lo Stato decidesse di estendere questa pratica alle mansioni più qualificate legate ai beni culturali, come il restauro di un bene o lo scavo di un sito. In questo modo si rischia di esporre il nostro patrimonio al dilettantismo e all'improvvisazione di chi non ha competenze e qualificazione, mortificando al contempo la professionalità di migliaia di giovani che hanno investito in una formazione specifica». Insomma, gira e rigira il problema è lì: «Non si può correre il rischio di mettere in concorrenza il volontario con il professionista. Quindi chiediamo al sottosegretario o al ministro di chiarire la posizione in merito al rapporto tra volontariato e professionismo».
E dal punto di vista degli archeologi, come dovrebbe essere regolato il rapporto tra lavoratori qualificati, contrattualizzati e stipendiati, e i volontari negli enti museali? «Nei paesi civili i volontari sono una risorsa irrinunciabile per dare un valore aggiunto alle iniziative ma nessuno può pensare di sostituire i professionisti con i volontari, in particolar modo per le attività che necessitano di qualificazione. Altrimenti sarebbe una becera forma di concorrenza sleale tra prestazione gratuita non qualificata e prestazione retribuita qualificata» spiega Barrano: «In parole povere, chi si farebbe fare un'otturazione a un dente da un volontario della domenica? Il patrimonio culturale del nostro paese è una cosa seria, è la nostra storia, è la nostra più grande ricchezza, come sancisce la nostra Costituzione. Chi è chiamato a prendersene cura» - qui Barrano si riferisce alla tutela, al restauro, alla diagnostica, alla ricerca e allo scavo - «deve essere dotato di adeguata professionalità. Sarebbe davvero irresponsabile da parte dei policy makers approfittare dell'assenza - scandalosa - di riconoscimento giuridico di questi professionisti per "risparmiare" sulla pelle del nostro patrimonio culturale e dei professionisti che se ne prendono cura».
Insomma. Gli archeologi attivi in Italia sono solo 5mila. Abitano in un Paese che ha una fetta enorme del patrimonio tutelato dall'Unesco, dove sorgono ben 2.500 siti archeologici, con una media di oltre 100 a Regione. Eppure non trovano lavoro. Quando lo trovano, nella maggior parte dei casi guadagnano pochi spiccioli - meno di mille euro al mese. E alle alte sfere del ministero dei Beni culturali, ministero tragicamente senza portafogli, si pensa al volontariato come panacea per riuscire a tenere aperti musei e monumenti senza avere bisogno di assumere e pagare chi ha studiato e acquisito professionalità specifiche. Nel frattempo basta fare un viaggio all'estero per sentirsi piccini picciò. A parte quel che riescono a fare in Francia in termini di fatturato turistico per lo Stato e di indotto su ciascun loro bene culturale. Perfino negli Stati Uniti, dove - siti pellerossa a parte - la cosa più vecchia che hanno risale al Seicento (mille-e-seicento), su qualsiasi luogo di minimo interesse storico-culturale vi è un'attività di cura, promozione e attrazione turistica che noi ci sogniamo. I nostri 5mila archeologi, preferiamo mortificarli a 750 euro al mese e prospettare musei e siti pieni di volontari.
Eleonora Voltolina
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