Ci volle una battaglia sindacale, negli anni Settanta, per dare vita alle cosiddette 150 ore per il diritto allo studio. Il risultato fu la possibilità per tutti i lavoratori di usufruire di un monte ore triennale retribuito per seguire corsi di formazione professionale o anche non strettamente connessi con l'attività lavorativa, al fine di ottenere un titolo di studio. L'idea era un po’ quella di potersi affrancarsi dal padrone, mettendosi al suo stesso livello grazie all’istruzione.
Francesco Lauria [nella foto sotto], 32enne sindacalista della Cisl, ha appena ripercorso questa storia nel libro Le 150 ore per il diritto allo studio [Edizioni Lavoro], facendo parlare in prima persona chi l’ha vissuta. «Le 150 ore erano una forma, potremmo dire, di risparmio contrattuale: una quota di salario che andava in un’altra direzione, forse la definizione migliore è quella di ‘investimento contrattuale’» scrive Bruno Manghi, uno dei protagonisti di quella lotta, nella prefazione del libro. In sostanza si trattava di sottrarre ore al lavoro, per dedicarle invece all’apprendimento: «Era un diritto non esigibile automaticamente e, all’inizio, la maggioranza dei lavoratori ne era consapevole molto blandamente». Un ruolo centrale lo ebbe chi portò avanti e fece conoscere quella rivendicazione: e allora operai e metalmeccanici iniziarono a utilizzare il tempo del lavoro anche per riprendere gli studi interrotti. Furono anni di cineforum, di corsi di inglese, italiano, storia, messi in piedi grazie all’aiuto degli intellettuali del tempo - organizzati tramite il sindacato nelle scuole per le 150 ore.
L’esperienza ebbe però vita breve, spiega ancora Manghi: «negli anni Ottanta tutto cade sulle spalle di pochi sindacalisti a tempo pieno e a livello confederale. Le esperienze migliori si sono trasferite all’azione degli enti locali, ai corsi per stranieri, ma il sindacato non ne è più protagonista».
Oggi le 150 ore sono solo un ricordo - anche se la legge prevede tuttora permessi retribuiti per motivi di studio - nonostante la questione della formazione continua sia tutt’altro che marginale. «Non sono pochi coloro che si rendono conto del peso negativo che la deficitaria condizione di literacy e numeracy degli adulti italiani ha su tutta la nostra vita, sociale, produttiva, economica, perfino, ha spiegato una volta Tito Boeri, finanziaria» afferma Tullio De Mauro, professore emerito di Linguistica, nella postfazione al libro. Come a dire che il nostro è un paese in declino forse anche a causa «del mondo oscuro della bassa scolarità intrecciata a una minacciosa e ancor più grave dealfabetizzazione in età adulta». Ipotesi non del tutto remota guardando al problema della disoccupazione: a ben vedere la laurea e più in generale i titoli di studio hanno uno scarso rilievo in Italia nel conseguimento di un posto di lavoro, ed è plausibile pensare che uno dei motivi risieda proprio nel basso tasso di scolarizzazione del nostro Paese, dove possedere un titolo accademico significa in pratica far parte di un élite. E poi c’è il discorso dei posti di lavoro di alto profilo: il fatto che scarseggino non è forse anch'esso legato alla bassa scolarizzazione della nostra popolazione e a una struttura industriale impostata in questo senso?
L'avventura delle 150 ore, riportata alla luce dal libro, potrebbe essere dunque una proposta per il futuro, uno spunto da cui ricominciare. Lo dice anche De Mauro: «Il lavoro di Lauria può essere l’occasione per aprire un rinnovato discorso e, soprattutto, un rinnovato, coordinato impegno per ottenere in Italia un sistema nazionale di promozione degli apprendimenti in età adulta. Il lavoro lo merita e lo esige il patrimonio umano, culturale e civile che è il lascito prezioso delle 150 ore».
Ilaria Mariotti
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